nennillo-nennella

Ninnillo e Nennella

Fiaba pubblicata da: Anna Valentina Farina

“Lo Cunto de li cunti” (“Il Pentamerone”), 1634
TRATTENIMENTO OTTAVO 

della Giornata Quinta.

Iannuccio ha due figli dalla prima moglie, si sposa la seconda volta e sono tanto odiati dalla matrigna, che lui li porta in un bosco dove si separano e si perdono. Ninnillo diventa caro cortigiano di un Principe. Nennella, cadendo in mare, è inghiottita da un Pesce fatato e, gettata sopra uno scoglio, è dal fratello riconosciuta e dal Principe maritata ricca ricca.

Fermata la corsa Antonella, si preparò a correre questo palio Ciulla e, dopo aver assai lodato il racconto dell’altra, che aveva dipinto così naturalmente il giudizio di Sapia, così disse:

«Rovinato quell’uomo che, avendo figli, spera di trovargli cure col dargli una Matrigna, poiché gli porta a casa la macchina delle rovine loro, infatti, non si è vista mai matrigna che vedesse di buon occhio i figli degli altri. E se pure se n’è trovata qualcuna per disgrazia, si può mettere lo sprocco nel pertugio[1] e si può dire che sia stata Corvo Bianco. Ma io, fra tante che forse avrei sentito mentovare, vi parlerò di una che si può mettere nella lista delle matrigne senza cuore, e che stimerete degna della pena che comprò in denari contanti.

C’era una volta un padre chiamato Iannuccio che aveva due figli, Ninnillo e Nennella ai quali voleva bene quanto alle pupille sue. Ma avendo la morte, con la lima sorda del tempo, rotto le inferriate della prigione dell’anima della moglie, si pigliò una brutta strega, che era una Canesca[2] maledetta che non aveva neanche messo piede nella casa del marito che, volendo essere l’unico cavallo della stalla, subito cominciò a dire:

– Che sono venuta a spidocchiare i figli degli altri? Questo mi mancava ora, di pigliarmi questo impaccio e vedermi intorno queste lagne! Che mi fossi rotta la noce del collo prima di venire in quest’inferno per male mangiare e peggio dormire col fastidio di questi ranocchi! Questa non è vita da sopportare: sono venuta come moglie, non come vaiassa! Bisogna pigliare provvedimento, e trovare sistemazione per queste zecche, o trovo sistemazione per me stessa. Ché è meglio una volta arrossire che cento impallidire: ora c’imparentiamo per sempre, ché sono risoluta proprio di vederne il costrutto, o a rompere in tutto e per tutto!

Il disgraziato marito, avendo riposto un poco d’affetto in questa femmina, le disse:

– Senza collera, moglie mia, ché lo zucchero costa caro! Domani mattina prima che canti il Gallo ti leverò questo tribolo per tenerti contenta.

E così la mattina appresso, prima che l’Alba spandesse la rossa coperta di Spagna per scuotere le pulci dalla finestra d’oriente, lui, presi i figli uno per mano, con un bel cesto di cose da mangiare al braccio, li portò in un bosco, dove un esercito di pioppi e di faggi tenevano assediate le ombre. Arrivato in quel luogo, Iannuccio disse:

– Nennilli miei, restate qua dentro! Mangiate e bevete allegramente, e appena vi manca qualche cosa, guardate questa pista di cenere che vado seminando: sarà il filo che, cacciandovi fuori dal labirinto, vi riporterà a piedi fino a casa vostra.

E dato un bacio a ciascuno se ne tornò piangendo a casa.

Ma quando tutti gli animali citati dagli sbirri della notte pagano il censo alla natura per il necessario riposo, i Nennille, per la paura di stare in quel luogo solitario, dove le acque di un fiume, percuotendo le pietre impertinenti che si paravano davanti ai piedi, avrebbero fatto spaventare Rodomonte[3], s’avviarono piano piano per quella stradina di cenere. Ed era già mezza notte quando adagino adagino arrivarono a casa, dove Pasciozza, la matrigna, non fece cose da femmina ma da furia d’inferno, e levando gli strilli al Cielo, sbattendo mani e piedi e sbuffando come un cavallo adombrato, diceva:

– Che bella cosa è questa? Da dove sono usciti ‘sti mocciosi inzaccherati?  È possibile che non ci sia argento vivo[4] da scrostarli da questa casa? È possibile che ce li vuoi tenere per far crepare questo cuore? Va’, levameli proprio ora dagli occhi, ché non voglio aspettare né musica di Galli né triboli di Galline! Sennò puoi dimenticarti di me e domani mattina me ne torno a casa dei parenti miei, ché tu non mi meriti! Non ti ho portato tanti bei mobili in questa casa per vederli rovinati dalla sporcizia degli altri, né ti ho dato una così buona dote per essere schiava dei figli che non sono miei!

Il disgraziato Iannuccio, vedendo la barca male avviata e la faccenda riscaldarsi troppo, nello stesso momento prese i piccoli e, tornati al bosco dove gli diede un altro cestino di coserelle da mangiare, disse:

– Voi vedete, bene mio, quanto vi odia quella peste di mia moglie, venuta in casa per rovina vostra e per chiodo di questo cuore perso. Statevene perciò in questo bosco, dove gli alberi, più pietosi di lei, vi faranno da riparo contro il Sole, dove il fiume, più caritatevole, vi darà da bere senza veleno, e la terra, più cortese, vi darà materassi d’erba senza pericolo. E quando vi mancherà il cibo, io vi faccio questa stradina di crusca dritta dritta, per la quale ve ne potete venire a domandare soccorso…

E detto così voltò la faccia dall’altra parte per non farsi vedere piangere e togliere l’animo ai due poveri Zaccarielle. I quali, dopo essersi mangiata la roba del cestino, vollero tornare a casa; ma poiché un asino, figlio della malasorte, aveva divorato la crusca sparpagliata per terra, sbagliarono la strada, tanto che andarono per cinque giorni sperduti nel bosco, nutrendosi di ghiande e castagne che trovarono cadute per terra.

Ma poiché il cielo tiene sempre la sua mano sul capo degli innocenti, venne per fortuna un Principe a caccia dentro quel bosco, e Ninnillo, sentendo l’abbaiare dei cani, ebbe tanta paura che se infilò dentro un albero che trovò incavato, e Nennella si diede tanto a correre che, uscita dal bosco, si trovò su una marina, dove essendo sbarcati certi corsari a fare legna, la rapirono, e il loro capo la portò a casa sua, dove la moglie, essendole morta da poco una figliola, la prese con sé.

Ma torniamo a Ninnillo che, rintanato dentro quella scorza d’albero, era circondato da cani che latravano tanto da stordire, sicché il Principe, volendo vedere che cosa fosse, trovato quel bel bambino che non sapeva dire chi fossero il padre e la mamma tanto era piccolino, lo fece mettere sopra la soma di un cacciatore e, portatoselo al palazzo reale, lo fece allevare con grande cura ed educare virtuosamente. Fra le altre cose gli fece imparare l’arte dello Scalco[5], tanto che non passarono tre o quattro anni che diventò così bravo nell’arte sua che spartiva a capello.

Nel frattempo, essendosi scoperto che il corsaro che teneva Nennella era un ladrone di mare, lo vollero mettere in prigione. Ma lui, che aveva amici fra gli scrivani[6] e li corrompeva con i regali, se la filò con tutta la sua casa. E forse fu giustizia del Cielo che chi aveva fatto imbrogli a mare, a mare ne pagasse la pena. Infatti, saliti sopra una barchetta, quando furono in mezzo al mare arrivò un tal turbine di vento e una tale furia di onde che la barchetta si rivoltò e fecero tutti la paparella. Solo Nennella, che non aveva colpa dei suoi ladrocini, come ne avevano la moglie e i figli del corsaro, scampò il rischio, poiché si trovò in quello stesso momento intorno alla barca un gran pesce fatato, il quale, aprendo una gran gola, la inghiottì. Ma quando la figliola credeva di avere compiuto i giorni, allora trovò cose meravigliose nel ventre di quel Pesce, ché c’erano campagne bellissime, giardini magnifici, una casa da Signori con tutte le comodità, dove stette da Principessa. Da quel Pesce fu portata di peso in cima ad uno scoglio, dove, essendoci la maggiore afa dell’estate e la più grande calura, era venuto il Principe a prendere il fresco.

Mentre s’apparecchiava un banchetto meraviglioso, Ninnillo s’era messo ad un terrazzino del Palazzo, sopra lo scoglio, ad affilare certi coltelli, dilettandosi assai del suo lavoro per farsi onore. Nennella, avendolo scorto dalla gola del Pesce, sparò con la voce da lontano:

– Fratello mio, fratello, i coltelli sono affilati, le tavole apparecchiate e la vita mia passa senza di te dentro questo pesce!

Ninnillo la prima volta non pose attenzione a quella voce; ma il Principe, che stava su un’altra terrazza, voltatosi a quel lamento, vide il pesce e sentì un’altra vota le stesse parole, per la qual cosa uscì fuori di sé per la meraviglia. Mandati cinque servitori a vedere se in qualche modo potessero gabbare il Pesce e trascinarlo a terra, finalmente, sentendo ripetere sempre quello stesso fratello mio, fratello mio, domandò a tutte le sue genti se qualcuno avesse perduto la sorella. 

E rispondendo Ninnillo, che cominciava a ricordare come in un sogno che, quando il Principe lo trovò nel bosco, aveva una sorella della quale non ebbe più notizia, il Principe disse che s’accostasse al pesce per vedere che cosa fosse: forse questa buona ventura era riservata a lui.

E Ninnillo accostatosi al pesce, quello cacciata la testa sopra lo scoglio e spalancate sei palme di gola, ne uscì Nennella, così bella che parve l’apparizione di una Ninfa che per incanto di qualche Mago era uscita da quell’animale.

E avendo chiesto il Re com’era avvenuto il fatto, quelli andarono raccontando una parte dei travagli loro e dell’odio de la matrigna ma, non riuscivano a ricordare il nome del padre né quello della casa loro. Così il Re fece gettare un bando: chi avesse perduto due figli chiamati Ninnillo e Nennella in un bosco, doveva presentarsi al Palazzo Reale ed avrebbe ricevuto una buona notizia.

Iannuccio, che se ne stava sempre col cuore triste e sconsolato credendo che i figli fossero stati divorati da lupo, corse con gioia grande dal Principe, dichiarando che proprio lui aveva perduto i figli.

E raccontata la storia, di come fosse stato costretto a portarli nel bosco, il Principe gli fece una buona ramanzina, chiamandolo pecorone da poco, ché si era fatto mettere il calcio in gola[7] da una donnetta, riducendosi ad abbandonare due gioie com’erano i figli suoi.

Ma dopo avergli rotto la testa con queste parole, vi applicò il rimedio della consolazione e gli fece incontrare i figli, che lui baciò e abbracciò per una mezz’ora senza mai saziarsene. Il Principe fattogli levare di dosso i rozzi vestiti, lo fece vestire da gentiluomo, e fatta chiamare la moglie di Iannuccio le fece vedere quelle due spighe d’oro, chiedendole cosa meriterebbe chi gli avesse fatto del male e li avesse messi in pericolo di morte. Ella rispose:

– Se fosse per me, lo metterei in una botte chiusa e lo farei rotolare giù da una montagna!

– Va’, lo avrai! Disse il Principe.

– La capra ha voltato le corna contro se stessa. Avanti, poiché hai emesso tu stessa la sentenza, pagala per l’odio che hai portato a questi bei figliastri!

E così ordinò che si eseguisse la sentenza che lei stessa aveva dato.

Trovato, poi, un gentiluomo ricco ricco, suo vassallo, gli diede Nennella in moglie, e al fratello diede in moglie la figlia di un altro gentiluomo simile, dandogli entrate bastanti a campare loro e il padre, che non ebbero più bisogno dell’aiuto di nessuno.

La matrigna, fasciata da una botte, sfasciò la vita, gridando dal buco della botte finché ebbe fiato:

– Tardano malanni e guai a chi spettano,

poi ne viene una buona e paga tutto! »

 

Note e traduzione a cura di Anna Valentina Farina.


[1] Anticamente si infilava un rametto secco (sprocco) in un pertugio come “pro memoria”.

[2] Pescecane

[3] Rodomonte, re di Sarza, è un personaggio dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo e, in seguito, dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.

[4] Il mercurio che era usato per separare le scorie dall’oro e dagli altri metalli preziosi.

[5] Scalco è un termine medioevale che deriva dal latino scalcus e significa servitore. In epoca barocca lo scalco era, più propriamente, il soprintendente alle cucine principesche. Non era quindi un semplice servitore, ma un cortigiano.

[6] Giudici.

[7] I piedi in testa.




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