Il gatto con gli stivali // Video Fiaba
Fiaba pubblicata da: Katinka Charlotte
Un mugnaio, morendo, non lasciò altra eredità ai suoi tre figliuoli che un mulino, un asino e un gatto.
Le divisioni perciò furono presto fatte, e non ci fu bisogno di chiamare né il notaio, né il procuratore, i quali avrebbero finito col mangiarsi anche quel poco che c’era.
Il maggiore si prese il mulino, il secondo l’asino e il più giovane dei fratelli dovette accontentarsi del gatto.
Quest’ultimo però non poteva darsi pace di essere stato trattato cosi male e diceva tra sé :
“I miei fratelli potranno guadagnarsi la vita onestamente mettendosi in società; io invece, quando avrò mangiato il mio gatto e mi sarò fatto un colletto col suo pelo, dovrò rassegnarmi a morire di fame”.
II Gatto, che aveva compreso ogni cosa, pur fingendo di non darsene per inteso, disse con aria seria e grave:
“Non tormentatevi così, padrone ! Procuratemi invece un sacco e un paio di stivali, perché io possa camminare tra gli sterpi del bosco, e vedrete che non siete stato cosi sfortunato come credete nell’eredità”.
Sebbene il padrone del Gatto non facesse molto affidamento su quelle parole, tuttavia non disperò di ricevere da lui un po’ d’aiuto nella sua miseria.
Quante volte, infatti, lo aveva visto fare dei giochi di abilità per prendere i topi, ora lasciandosi penzolare e tenendosi per le zampe posteriori, ora nascondendosi nella farina e facendo il morto!
Allorché il Gatto ebbe ottenuto ciò che aveva chiesto, infilò gli stivali alla brava, si pose il sacco sulle spalle, tenendone i cordoni con le due zampe davanti, e si diresse verso una riserva di caccia, dove si trovavano molti conigli selvatici.
Giunto là, mise un po’ di crusca e d’insalata nel sacco, e si stese a terra come se fosse morto, in attesa che qualche coniglietto giovane e poco esperto degli inganni di questo mondo venisse a cacciarsi in quella trappola, spinto dalla voglia di mangiare ciò che il Gatto vi aveva astutamente posto dentro.
Si era appena sdraiato, che la sua trovata funzionò.
Nel sacco, infatti, era entrato un coniglietto ! Quel furbacchione di un gatto tirò alla svelta i cordoncini, poi prese la bestiolina e la uccise senza misericordia.
Tutto trionfante per la preda fatta, si recò dal Re e domandò di parlargli.
Lo fecero salire agli appartamenti di Sua Maestà; e qui il Gatto, fatta una grande riverenza al sovrano, disse:
“Sire, accettate questo coniglio di riserva, che vi manda il
marchese di Carabas” (era questo un nome inventato li per li dalla fertile fantasia del nostro Gatto).
“Di’ al tuo padrone” rispose al Re “che lo ringrazio e che ho molto gradito il suo presente”.
Un’altra volta il Gatto andò a nascondersi in mezzo al grano, c dispose sempre il sacco in modo che stesse aperto. Appena vi entrarono due pernici, tirò i cordoncini e le prese tutte e due.
Si recò nuovamente dal Re, come aveva fatto per il coniglio. Il sovrano gradi moltissimo anche questo regalo, e fece dare una mancia all’insolito servitore.
Il Gatto continuò cosi per due o tre mesi a portare di quando in quando al Re la selvaggina che, diceva lui, aveva cacciato il suo padrone.
Un giorno, avendo saputo che il Re doveva andare a fare una passeggiata in carrozza lungo la riva del fiume assieme alla figlia, che era la più bella Principessa del mondo, disse al padroncino:
“Se badate al mio consiglio, la vostra fortuna é fatta: andate a fare il bagno nel fiume, nel punto che io vi indicherò, e poi lasciate fare a me”.
Il sedicente marchese di Carabas fece quello che il Gatto gli aveva consigliato, senza sapere quale fosse lo scopo di tutto ciò. Mentr’era nell’acqua, il Re si trovò a passare da quelle parti,
c il Gatto si mise a urlare con quanto fiato aveva in gola :
“Aiuto ! Aiuto ! Il marchese di Carabas sta annegando!”
A quel grido il Re mise fuori la testa dal finestrino, e, riconoscendo il Gatto, che gli aveva portato tante volte la selvaggina, ordinò alle guardie di correre in aiuto del marchese di Carabas.
Intanto che il povero marchese veniva ripescato dal fiume, il Gatto si avvicinò alla carrozza e raccontò al Re che, mentre il suo padrone era nell’acqua, erano sopraggiunti dei ladri, che gli avevano rubato i vestiti, sebbene il poveretto si fosse affannato a gridare “al ladro! al ladro!”
Invece era stato quel furbacchione del Gatto a nascondere gli abiti del padrone sotto una grossa pietra!
Il Re ordinò immediatamente agli ufficiali addetti al suo guardaroba di andare a prendere uno dei suoi vestiti più belli per il marchese di Carabas.
Quando il giovane li ebbe indossati, si presentò al Re, e questi gli usò mille gentilezze.
Quegli abiti gli stavano veramente bene e mettevano in risalto la naturale bellezza dei suoi tratti e 1’eleganza della persona, tanto che la figlia del Re se ne senti subito attratta.
Bastarono due o tre occhiate, un poco tenere, per quanto molto rispettose, perché la fanciulla se ne innamorasse perdutamente.
Il Re riprese la passeggiata interrotta e volle che il giovane salisse sulla carrozza e li accompagnasse.
Il Gatto, felice di vedere che tutto procedeva secondo il suo disegno, andò avanti per conto suo.
Lungo la strada incontrò alcuni contadini che falciavano un prato e disse loro:
“Buona gente che falciate l’erba, se non dite al Re, quando passerà di qui, che questo prato appartiene al marchese di Carabas, finirete tagliati a pezzettini come carne da polpette”.
Tosto sopraggiunse il Re, che per l’appunto chiese ai contadini di chi fosse quel prato che stavano falciando. E quelli risposero in coro, spaventati dalle minacce del Gatto:
“Del marchese di Carabas”.
“Avete una bella proprietà!” disse il Re al marchese.
“Come vedete, Sire” rispose il giovane, “é terra fertile, e tutti gli anni mi dà un ottimo raccolto”.
L’astuto Gatto, che li precedeva sempre, incontrò alcuni mietitori e disse loro:
“Buona gente che tagliate il grano, se non dite che queste
messi appartengono al marchese di Carabas, finirete tagliati a pezzettini come carne da polpette”.
Il Re, che passò di là subito dopo, volle sapere di chi fosse tutto quel grano che vedeva.
“È del marchese di Carabas” risposero i mietitori; e il Re se ne rallegrò col giovane.
Il Gatto, che camminava sempre davanti alla carrozza, continuava a dire la stessa cosa a tutti quelli che incontrava lungo la strada; cosi il Re non finiva più di meravigliarsi delle grandi ricchezze del marchese di Carabas.
Finalmente il nostro Gatto giunse a un bel castello di proprietà di un Orco, che era il più ricco che si fosse mai visto; infatti tutte le terre che il Re aveva percorso con la carrozza, erano di sua proprietà.
Il Gatto, che aveva avuto l’accortezza di informarsi chi fosse quell’Orco e quali prodigi sapesse compiere, chiese di potergli parlare, dicendo che non aveva voluto passare così vicino al suo castello senza avere l’onore di venirgli a rendere omaggio.
L’Orco lo ricevette con la buona grazia che può avere un Orco e lo fece accomodare perché si riposasse.
Allora il Gatto prese a dire:
“Mi hanno assicurato che avete la capacità di mutarvi in ogni sorta di animali; che potete, per esempio, trasformarvi in leone oppure in elefante”.
“È vero” rispose l’Orco con fare brusco, “e, per dimostrarvelo, diventerò un leone sotto i vostri occhi”.
Il povero Gatto si spaventò talmente nel vedersi davanti quella bestia feroce, che si rifugiò sulle grondaie, non senza qualche difficoltà e col rischio anche di cadere, a causa degli stivali, che non erano certo adatti per camminare sulle tegole.
Dopo un po’, avendo visto che l’Orco aveva ripreso le sue solite sembianze, si decise a scendere e ammise di avere avuto molta paura.
“Mi hanno anche assicurato” riprese a dire il Gatto, “ma io stento a crederci, che avete la facoltà di trasformarvi anche in un animale piccolissimo, come la talpa e il topo: vi confesso però che tutto ciò mi sembra davvero impossibile”.
“Impossibile?” disse l’Orco. “Ora vedrete!”
Cosi dicendo si mutò in un topolino e prese a correre sul pavimento della stanza.
Il Gatto, appena lo vide, si gettò come un lampo su di lui e ne fece un boccone.
In quel mentre il Re, che nel passare di là aveva notato il magnifico castello dell’Orco, volle entrare per visitarlo.
Il Gatto, udendo il rumore della carrozza, che attraversava il ponte levatoio, corse incontro al Re e gli disse:
“Vostra Maestà sia la benvenuta nel castello del marchese di Carabas!”
“Ma come, marchese!” esclamò il Re; “questo castello é dunque vostro? Non ho mai visto niente di più bello: che eleganza ed armonia di linee, quale grandiosità e che splendidi giardini. Visitiamone l’interno, se non vi dispiace”.
Il marchese offrì la mano alla giovane Principessa, e assieme seguirono il Re, il quale si era avviato per primo.
Entrarono in una grande sala, dove trovarono pronta una magnifica colazione, che l’Orco aveva fatto preparare per i suoi amici. Questi avrebbero dovuto venire a trovarlo proprio quel giorno, ma poi non osarono farlo, avendo saputo che era giunto il Re.
Il Sovrano, conquistato dalle buone maniere del marchese di Carabas, – che dire poi della figlia, che ne era innamoratissima – e vedendo la vastità dei suoi possedimenti, gli disse, dopo aver bevuto cinque o sei bicchieri di vino:
“Dipende soltanto da voi, marchese, se volete diventare mio genero”.
Il marchese si profuse in riverenze, accettò volentieri l’onore che il Re gli faceva, e il giorno stesso sposò la Principessa.
Naturalmente il gatto rimase con gli sposi. Ebbe un bel cuscino di seta accanto al fuoco, nella sala del trono durante l’inverno, ed una bella cuccetta sotto il pergolato d’estate.
Il figlio del mugnaio diventò dunque il marito della Principessa, ma, siccome era un giovane onesto e sincero, non volle continuare ad ingannare la moglie ed il Re.
Raccontò come erano andate veramente le cose, spiegò per filo e per segno quello che aveva architettato il gatto, dalla prima fortunata caccia nel bosco al colpo maestro dell’uccisione dell’Orco e alla conquista del castello.
Liberato da questo peso, visse felice con la sua sposa ed ebbe tanti figliuoli, che giocarono allegramente col gatto per nulla meravigliati di vedergli indosso gli stivali ed ascoltarono anch’essi, divertendosi un mondo, la storia del cattivo Orco, trasformato in topino e divorato dal gatto.
Fiaba tratta dall’originale di Perrault.