La fata dei desideri

La fata dei desideri

Fiaba pubblicata da: marco.ernst

Celestino sedeva su uno scoglio, una seduta scomoda, ma lui pareva non accorgersene.

Stava piangendo, imprecando, maledicendo, rimuginando su una vita con poche soddisfazioni, senza slanci, senza novità, mai, con tante sfortune e mai, mai una sola volta, un momento di fortuna inaspettato.

Probabilmente tutto ciò non era molto diverso da quanto avevano passato e passano quotidianamente molte altre persone, ma si sa: non è vero che mal comune è mezzo gaudio e il dolore di vivere degli altri non può consolare, né contribuire a diminuire il proprio.

Forse, anzi certamente, non fa piacere sapere che altri soffrono, ma lascia indifferente chi è raggomitolato nei propri problemi.

Perché – urlò ancora una volta – Perché nessuno mi ascolta, mi aiuta? Perché mai un solo giorno io posso arrivare a sera non dico felice, ma almeno sereno?”. Il suo urlo era stato così forte da far sobbalzare, solo che non c’era nessuno nelle vicinanze a farlo: era un prodromo d’inverno di una giornata feriale in riva al mare e c’erano solo Celestino e la sua vita insoddisfatta a sfidarsi.

Celestino: quale scherzo del destino, o forse più semplicemente dei suoi genitori, quel nome che ispirava serenità, un cielo limpido, in un uomo con l’animo perennemente in burrasca…

Già, una burrasca, ma il mare, quel giorno, che dal colore uniformemente grigio sembrava mai nato e non intenzionato a decidersi né a spuntare, né a tramontare, il mare, si diceva, era calmo, piatto, tristemente immobile, tranne che a una manciata di metri da riva dove l’acqua stava stranamente ribollendo.

L’uomo fu strappato per un momento ai suoi pensieri cupi da quello strano fenomeno; a poco,  a poco, dalla spuma spuntò qualcosa, prima una testa, poi un corpo: un naufrago, pensò Celestino, ci mancava solo quello, un cadavere e tutte le grane che ne derivano per chi lo segnala.

Il corpo che emergeva dalle acque era quello di una donna, algidamente bella, una creatura, però, dotata di ali bianche, enormi, che spuntavano dietro le esili spalle nude.

Celestino si stropicciò gli occhi, incredulo, poi, come spesso avviene nelle situazioni inaspettate, gli venne alla mente un pensiero buffo che gli strappò un sorriso: cose diamine se ne fa di un paio d’ali una creatura delle acque: assurdo! Sì, assurdo come una fata che esce dal mare, come una creatura di fantasia, di quelle che si leggono solo nei libri o si vedono nei film per bambini.

La creatura alata uscì dalle acque come salendo una scala inesistente, come risalendo il degrado di una battigia che non c’era; poi i piccoli piedi nudi salirono, quasi sfiorandolo, uno scoglio poco distante da quello dell’incredulo spettatore.

Per un po’ la creatura (una fata? una strega? una sirena, una creatura extra-terrestre?) rimase in silenzio a contemplare l’orizzonte, evidentemente per lei pieno di ricordi e significati: lo sguardo fisso verso il cielo cupo, verso un sole che non si decideva né a sorgere, né a tramontare, né a sconfiggere le sottili ma compatte nubi invernali.

Poi parlò all’uomo, ma senza smettere di guardare oltre il limite del finito materiale e immateriale: “Vuoi che ti racconti la mia storia?”.

A dire il vero Celestino aveva poca voglia di ascoltare ciò che si preannunciava come poco allegro: avrebbe solo voluto che quella cosa irrazionale se ne andasse cosicché lui potesse riprendere le sue rimuginazioni e recriminazioni, ma nonostante tutto era una persona educata e civile, così non disse nulla e lasciò che la fata (perché quello era, glielo diceva quel poco di fantasia infantile ancora nascosto e sepolto nel fondo del suo animo triste) parlasse e gli raccontasse una storia che non gli interessava: lui sapeva bene come può far piacere ad una creatura infelice potersi sfogare condividendo il proprio dolore.

La fata delle acque incominciò la sua storia: ”Non la farò troppo  lunga e molte cose non te le racconterò, perché non posso e non voglio farlo; sappi, comunque, che una volta io ero una giovane donna, reale, in carne ed ossa come te e come te ero insoddisfatta della mia vita, prostrata da troppe negatività e cose brutte accadute nella mia, seppur breve, vita. Come te anch’io invocai aiuto, ma a tua differenza nessuno rispose, come ho invece fatto io, alla mia invocazione, così decisi di farla finita. Mi gettai in acqua proprio da lassù, e così facendo la creatura indicò un alto strapiombo incombente sopra le loro teste, ma solo dopo la fine della mia vita terrena, quando le acque mi avevano avvolto fuori e dentro, quando il mio respiro era diventato nulla, un’altra creatura, come io ora sono e che era stata anch’essa ciò che io fui, mi apparve e mi diede le ali per ricordarmi il mio lungo volo da lassù e con esse la capacità, prima di poterle usare per lasciare questo mondo liquido fatto di freddo e solitudine, di poter aiutare una persona: solo allora potrò passare oltre, in un mondo, finalmente, migliore. Ora, quindi, io potrò, a tua scelta e richiesta, cambiare una tua condizione; fortunatamente tu sei vivo, hai avuto la forza di continuare a godere di questo unico dono, e quindi non prenderai il mio posto negli abissi. Dunque pensaci: vuoi essere ricco, ti farò ricco, oppure vuoi essere intelligente e così sarà. Vuoi l’eterna giovinezza e la vita eterna oppure ancora la forza o l’amore? Io, però, ti darò una, una sola, di queste cose: pensaci, tornerò qui ogni giorno per pochi giorni, fino a che  mi darai una risposta definitiva ed allora saremo liberi entrambi: tu di vivere sereno, io di morire altrettanto serena, perché so già che la morte non è la fine, ma solo un cambiamento”; ciò detto, con un elegante, breve volo ed un tuffo leggiadro, la fata scomparve di nuovo da dove era venuta.

A Celestino parve di risvegliarsi da un sogno: quello, forse, era stato? Possibile che nel terzo millennio esistessero le fate, i desideri, i cambiamenti, perfino altri mondi o, per meglio dire, dimensioni?

Comunque tornò a casa, in quella sua casa fredda per mancanza d’amore e di slanci e, tanto non gli costava nulla farlo, né sperare, si mise a pensare a quale condizione avrebbe voluto cambiare nella sua vita: erano troppe? Era nessuna…?

Il giorno seguente era di nuovo seduto sullo scoglio: nulla era cambiato, non il colore del cielo, di un grigio indefinibile interrotto solo da striature avorio di un sole che non decideva cosa fare, non il mare, immoto, ma altrettanto grigio, specchio infinito del cielo e dei suoi umori; poi l’acqua ribollì e ne emerse la “sua “ fata: “Eccomi, come promesso; come vedi non ero un sogno, né un’allucinazione. Allora, ha pensato alla mia proposta? Vuoi la ricchezza?”.

“Sì, ci ho pensato, ma no, non voglio essere ricco, perché la ricchezza non mi darebbe ciò che cerco e m’impedirebbe, probabilmente, di riconoscere i veri amici”.

“Bene, saggia decisione: allora vuoi la forza?”.

“E che me ne fare? Mi darebbe la felicità essere imbattibile? Magari diventerei prepotente, arrogante e io non voglio esserlo; sarei rispettato solamente per paura e non per quello che sono”.

“Anche questo mi pare saggio; allora vuoi l’intelligenza, oppure l’amore?”.

“No, anche l’essere troppo superiore agli altri intellettualmente mi farebbe perdere amicizie, le pochissime che ho, e contatti umani e riguardo l’amore, che amore è un amore rubato, ottenuto con la magia e non per quello che io ho dentro di me? Neppure la bellezza ottenuta così m’interessa: mi renderebbe vanesio e presuntuoso”.

“Tutte cose condivisibili: rimane solo la vita eterna con l’eterna giovinezza, non c’è altro: vuoi quella?”. “Per vedere invecchiare e morire intorno a me le poche persone a cui tengo? Per dover dare troppe spiegazioni oppure dover di continuo cambiare città e identità? No, grazie, non fa per me. Tante volte ho pensato che se tutte queste cose, o almeno anche una sola di esse, fosse cambiata, allora sarei stato felice, ma nel momento in cui questo diventa una possibilità reale, allora ci si pensa bene e si realizza che non migliorerebbero alcunché: anzi, peggiorerebbero la nostra vita”.

Beh, il mio tempo è scaduto: devo andare” disse la fata delle acque.

“E il mio desiderio? La dote che mi hai promesso? Non puoi andartene, non hai assolto il tuo compito, non mi hai dato nulla di quanto promesso!”. protestò Celestino con una punta di disperazione nella voce.

“Ma te l’ho dato, invece, e prima ancora che tu scegliessi: non te ne sei reso conto? Hai avuto in regalo da me la consapevolezza: ora sai che quello che hai, alla fine, ti basta e ti va bene, che cambiando qualcosa perderesti una parte fondamentale di te stesso, perderesti molto più di quanto riceveresti, come se ti facessi tagliare una mano o un piede e sostituirli con altri di legno, bellissimi, non soggetti a dolori o malanni, ma comunque  non tuoi”.

“Ah, no, quello mai, non potrei rinunciare ad una parte del mio corpo!” sbottò d’impeto l’uomo.

“Ecco, vedi? E pensa che il tuo corpo non è certo la parte più importante di te, come non lo è di nessun essere umano, ma lo sono, invece, il cuore, inteso come sentimenti ed emozioni, ed il cervello, vale a dire il pensiero. Con la consapevolezza, invece, adesso tu sai e puoi accettare tutto ciò che viene con più raziocinio e rassegnazione e, con questi avere la serenità: la felicità è una condizione fatua, che dura poco e dopo lascia un rimpianto, un prezzo, più grande di lei; la serenità, invece, è una condizione stabile e che consente di apprezzare i nostri giorni, pochi o tanti che ce ne rimangano”.

Detto ciò la fata sparì, immergendosi nelle acque.

Celestino, quando non la vide più, alzò lo sguardo verso l’alto e il cielo gli parve più limpido e azzurro ed anche il suo animo, per la prima volta da troppo tempo, gli apparve più sereno e, finalmente, sorrise.



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