Le stelle di Alì

Fiaba pubblicata da: Gabriela Chiari

In una città come tante, c’era un quartiere di periferia come tanti, dove moderni palazzi di cemento erano intervallati dal verde che creava macchie irreali; erano piccoli polmoni dove i bambini giocavano e giocando respiravano e correvano dietro ad un pallone. Correvano e si azzuffavano per un nonnulla, poi si abbracciavano e si stendevano sull’erba con il viso rivolto al sole, le mani dell’uno intrecciate con quelle dell’altro. Formavano una sorta di cerchio magico su quel tappeto verde che all’improvviso si copriva di colori: i pantaloni, le magliette,i capelli dei bambini, i loro visi arrossati, ma sorridenti.

Soltanto un bambino non riusciva mai ad entrare nel “ cerchio magico”, eppure era il migliore a calciare il pallone, era agile e le sue gambe scure sembravano quelle di una gazzella. Alì allora sedeva in disparte su una panchina: le lunghe gambe incrociate, le mani dietro la testa, il viso rivolto verso l’alto, il suo corpo diventava tutt’uno con la panchina; ma non guardava mai i bambini stesi sul prato in cerchio.

Quell’abitudine di stendersi in cerchio tenendosi per mano era un segno d’appartenenza: allo stesso condominio, allo stesso quartiere, alla stessa città, alla stessa nazione, alla stessa razza. Lui ne era fuori e lo sapeva benissimo.

Quasi tutti i pomeriggi, i bambini si ritrovavano; non c’era un vero e proprio appuntamento, ma giungevano da soli o in piccoli gruppi, spinti dal desiderio di stare insieme, di condividere del tempo. Anche Alì arrivava e spesso lo lasciavano giocare a pallone con loro; era troppo bravo! Il gruppetto che se lo accaparrava riusciva sempre a vincere. Tutto però finiva lì, terminato il gioco, veniva rimesso da parte, quasi fosse una “macchina” per fare goal.

Alì era contento lo stesso; era abituato ad essere solo e i pensieri che gli frullavano in testa erano certamente gli amici migliori, quelli che gli appartenevano come lui apparteneva a loro.

I bambini arrivavano, portandosi dietro qualche gioco: carte, il pupazzetto di Batman o di Spiderman e così via; li usavano quando non giocavano a pallone. Anche quello era un modo per sentirsi parte di un tutto.

Un giorno, arrivò Nico camminando solennemente con le mani in tasca, trasudava soddisfazione da tutti i pori. Era un ragazzino alto e robusto con i capelli biondicci e lo sguardo di ghiaccio; aveva sempre un atteggiamento spavaldo e assumeva spesso un ruolo di comando nei confronti degli altri; per questo motivo, Alì aveva pensato che fosse il “capo” del gruppo. Tirò fuori dalla tasca un cellulare ultimo modello e subito mostrò compiaciuto quel regalo ricevuto per il compleanno. Tutti gli si affollarono intorno ed a lui non sembrò vero di assaporare la gioia di un leader che riesce ad attirare l’interesse degli altri. Quel pomeriggio, non si giocò a pallone ed Alì rimase sulla panchina, assorto nei suoi pensieri.

Lui non aveva i giochi degli altri, ma possedeva un piccolo tesoro: un orsacchiotto, che era stato il suo amico fedele da quando era piccolo e lo aveva sempre accompagnato e confortato, anche nei momenti più difficili della sua giovanissima esistenza; il suo nome era Bear, come era scritto sulla scatola di cartone che in origine lo conteneva. Era davvero speciale perché, col passare degli anni e nonostante i disagi affrontati, il suo aspetto era rimasto immutato: il pelo marrone era morbido e sempre lucido, come se si rigenerasse ogni giorno. La vera particolarità di Bear era però la sua capacità di prendere vita. Quando Alì era preso dallo sconforto e lo stringeva a sé, l’orsacchiotto si animava e cominciava a parlare; consigliava il bambino sul da farsi, gli impediva di cacciarsi in qualche guaio. Insomma era un aiuto prezioso che, passato il momento del bisogno, riprendeva la sua natura di giocattolo.

Alì era orgoglioso di Bear e pensava che fosse il suo migliore amico, insieme ai suoi pensieri e alle stelle. Sì, perché Alì amava osservare le stelle fin da quando era piccolo, glielo aveva insegnato suo padre. Il paesaggio ora era molto diverso dalla sua terra lontana, ma le stelle erano sempre le stesse. Così spesso andava sull’erba quando ormai gli altri non c’erano più perché era scesa la notte; si sdraiava con le mani sotto la testa ed osservava il cielo. Le emozioni che provava erano di grande serenità, pace e fratellanza: le stelle erano uguali per tutti.

Un giorno, mentre se ne stava seduto sulla panchina in compagnia di Bear, vide arrivare Nico. Era da solo e non aveva assolutamente l’aria del leader, anzi sembrava un po’ ammaccato, aveva perduto la sua spavalderia e camminava su e giù con le mani dietro la schiena. Aveva proprio bisogno di un contatto umano e in quella situazione gli andava bene anche Alì; così si sedette sulla panchina, il più lontano possibile da lui.

Nico, senza guardarlo, disse: “Sei forte con il pallone, ma sei comunque uno “sfigato” e quelli come te non hanno futuro, lo dice sempre mio padre che voi migranti …”.

Alì ascoltò quelle parole cui era abituato, ma che non condivideva affatto e istintivamente strinse il braccio intorno a Bear; questo si mosse, girò la testa verso quel ragazzino e replicò: “Sfigato sarai tu!”; poi ritornò immobile.

Nico non poteva immaginare che fosse stato un peluche a parlare; pertanto, pensando che Alì avesse pronunciato quelle parole, disse: “Hai coraggio, mi piaci! Stavolta sono io ad aver perso; ho perduto il mio cellulare!”. In quel momento sentì il bisogno di confidarsi, si avvicinò ad Alì che lo guardava stupito e riprese a parlare: “Mio padre mi aveva regalato un cellulare con il quale ero sempre in contatto con gli amici, scambiavo messaggi, scattavo foto, insomma non ero mai solo. Poi l’altro giorno l’ho combinata grossa a scuola; l’insegnante mi ha portato dal Dirigente che ha convocato mio padre. Quando lui ha saputo quello che avevo fatto e ha scoperto anche le mie assenze e i brutti voti, mi ha tolto il cellulare. Per me è la fine, non voglio diventare anch’io uno “sfigato”!”.

Alì, con un po’ di timore, cominciò a parlare: “Capisco che tu sia dispiaciuto per aver perduto un oggetto a cui tenevi, ma non riesco a comprendere perché tu abbia paura di essere solo; in fondo è soltanto un telefono che ti permette di comunicare con gli altri, ma prima che con gli altri devi comunicare con te stesso. C’è tanta ricchezza in ognuno di noi che dobbiamo cercare di apprezzare e, soltanto dopo averla scoperta, la possiamo comunicare agli altri, ma attraverso le parole, guardandoli in viso e non solo con gli sms. Le foto sicuramente sono belle, ma vuoi mettere condividere dal vivo un’emozione?”.

Alì parlava con una saggezza che era molto più grande dei suoi undici anni e mentre parlava stringeva Bear, che era rimasto immobile, ma sembrava mettergli in bocca quelle parole che lui stava pronunciando.

Nico, di fronte a quel ragazzino tanto diverso da lui non solo per il colore della pelle ma nell’anima, sentì che tutta la sua spavalderia non era che un mezzo per nascondere un vuoto, una paura: quella di rimanere solo, di non essere accettato. Allora, con una voce che non sembrava la sua, chiese: “Sai insegnarmi come condividere un’emozione?”.

Alì si alzò dalla panchina, stringendo Bear tra le braccia e rispose : “Vieni stasera sul prato, appena fa buio!”.

Nico annuì, ma più tardi fu preso dal dubbio e soprattutto dal timore di dover affrontare quello che era per lui un nemico : il buio. Già, perché Nico, nonostante le sue arie da grand’uomo, era un ragazzino pauroso e di notte evitava di uscire anche sul balcone; dormiva sempre con una piccola luce accesa. Stavolta però non poteva tirarsi indietro, doveva cercare di vincere la sua paura e per farlo fu costretto a pensare e a ripensare. A forza di pensare, nacque un po’ di coraggio, quel tanto che gli consentì di sgattaiolare fuori di casa e recarsi al luogo dell’appuntamento.

Arrivarono quasi contemporaneamente nello spiazzo verde scelto da Alì, dove non c’erano lampioni. Non si vedevano differenze, al buio erano solo due preadolescenti desiderosi di condividere un’emozione.

Alì si sdraiò sull’erba ed assunse la sua posizione usuale, l’altro lo imitò e si sdraiò accanto a lui.

Alì lo invitò ad osservare il cielo che quella sera era pieno di stelle e cominciò a pronunciare il nome di qualche costellazione. Nico ammirava estasiato quello spettacolo cui non aveva mai assistito prima; sentì un’emozione dolce invadergli il petto, qualcosa di sconosciuto ma bellissimo, cercò la mano di Alì e la strinse forte, mentre esclamava: “Che belle, sono tutte nostre le stelle!”.

Alì però rispose: “Le stelle appartengono a tutti e a nessuno, ma ognuno può sceglierne una perché è parte dell’universo; quando le guardo tutte insieme mi sento infinito”.

I due ragazzini rimasero a lungo ad osservare il cielo.

Fu un’esperienza indimenticabile per Nico che, diversi anni dopo, quando ormai viveva in un’altra città ed era diventato adulto, ricordava ancora con nostalgia le stelle di Alì.



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