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La civetta

Fiaba pubblicata da: manola frediani

Cammino e sento il rumore dei miei passi, cade un foglia scricchiola e cade pesante, un sasso nel silenzio vigile della campagna. Si avvicina uno scooter, mi supera, il rombo del motore si diluisce nell’aria ferma ,lo seguo lontano, lo ascolto dissolversi come un ricordo, una traccia di me che affiora da memorie sepolte..

Ero bambina e affondavo dentro il materasso di piume, scivoloso , andava di qua e di là come l’onda del mare..

La camera della nonna era buia, ma in un angolo un lumino rassicurante era sempre acceso, davanti alla foto del nonno, morto giovane per un infarto.

La nonna era ferma dalla sua parte del letto, io ascoltavo quello strano silenzio dove tutto era vivo, un pigolio sommesso dalla camera accanto, dove i pulcini nascevano sotto lo staio, uno stridio di civetta,la immaginavo verde nel buio coi suoi occhi di maga, un richiamo lontano, un cane, un uccello, un suono di frasche spezzate.

La notte era viva, io fingevo il sonno per poterla ascoltare , i miei sensi si tendevano all’esterno a captare fruscii e schianti.

Una notte sentii qualcosa più forte, uno scoppio, un fragore, rumore di foglie arruffate e poi un lamento leggero,un pianto di bimbo, dei passi nel buio,… mi voltai verso la nonna che dormiva placida su di un fianco, senza rumore.. mi alzai, il buio mi avvolse ma io andavo sicura, conoscevo l’angolo fra il letto e il comò, alto, Inarrivabile alle mie mani di bimba, con la teca della sacra famiglia inspiegabilmente chiusa alle mie mani curiose, con i cassetti chiusi sempre a chiave,custodi di antichi segreti, poi due passi e le scale, di sasso, ripide, con la finestrella a metà dove entrava un baluginio di luna.

Scesi piano, scivolavo sicura senza rumore, il lamento mi guidava là fuori, nell’aia addormentata sotto le stelle.

Aprii la persiana. Poi la porta che cigolò appena.. mi fermai ad ascoltare.

Nessun rumore, nessun fruscio, solo canti di grilli , le ombre erano nette sotto la luna.

Camminai lungo la casa, verso la stalla, di là avevo avvertito lo schianto.

La mia ombra era storta, si affiancava ai miei passi e mandava un doppio di me, un fantasma che mi seguiva.

Non avevo paura, andavo sicura verso il capanno , girai dietro il pollaio, le conigliere,tutto dormiva, ecco, d’un tratto un piglio, un chiocciare, un ciangottio infantile che saliva sotto i cespugli… e lo vidi. Sotto la quercia. occhi azzurri spalancati in un bambolotto di penne, grande come un mano, che si rannicchiava spaventato sotto le foglie… una civetta cucciolo forse caduta dal nido, forse ferita.

Si fece accarezzare , allargando piano le ali per trovare il suo equilibrio di cucciolo, due ali piccole e senza le piume come due ramoscelli d’autunno, capii che non poteva volare.

Guardai meglio. Un delle ali era come rattrappita, accartocciata, l’animale la teneva un po’ aperta sotto di sé,come un ventaglio.

Forse era caduto o si era ferita durante la caccia.

Sapevo che le civette si cibano di roditori, forse un topo l’aveva morsa.

La osservai, i suoi occhi tondi rimanevano immoti e fissavano i miei. Gialli e lucenti come pietre di ambra.

Non aveva paura, certo il suo lamento era un grido di aiuto.

Cercai un panno dentro il capanno, la avvolsi e la nascosi sotto il fieno.

L’animale non protestò, solo un lieve ciangottio quando toccai l’ ala ferita.

Richiusi piano la porta con il chiavistello di ferro, e camminai lungo il muro della casa .

Il cielo scolorava a oriente in una lanugine rosa.

L’appuntamento

Arrivarono alla spicciolata, la sotto l’antenna dell’enel, dove era il nostro quartier generale.

Per primo Vincenzo, con la sua biciclettina bassa, su cui lui pedalava rannicchiato come un nanetto del circo, poi la Vera, seria e vestita come una donna. La gonna dritta e i capelli raccolti, Piero, i capelli rossi più delle lentiggini e il viso rosso dal sole del pomeriggio, , Isabella , piccola e graziosa, gli occhi e i capelli neri come una zingara , lo Sgranino, gli occhi spauriti e quei denti di coniglio che spesso digrignava come un piccolo lupo.

Da ultimo Robertino, avanzava sicuro lungo l’argine stretto della Pescia, attento a non cadere perché sotto c’erano le ortiche, alte come bambini che sfregavano le gambe e provocavano chiazze dolorose.

Lo aspettavamo, come un tacito accordo, Lui era il capo e avremmo parlato solo in sua presenza.

“che scè? chiese, lo sguardo un po’ sprezzante e gli occhi ridenti, maliziosi.

Facevo ranocchi, più in là,ce ne sono un fottio,venite a vedere.

La Manola ha trovato una cosa, stanotte, dobbiamo decidere che farne..

La bimba aprì un fagotto, apparvero due occhi gialli, un po’ velati,in mezzo a un fagotto di piume striate, come un aquilotto.E’ un civetta, e porta male..

Da qua.

La civetta si fece accarezzare.

Se porta male ora si vede, fra poco c’è la festa dei morti, la porteremo con noi per chiamare gli spiriti

Accenderemo le zucche e magari apparirà il diavolo stesso. O gli spiriti.. .la notte dei morti vanno in giro ritornano alle loro case .reciteremo le giaculatorie.

Nessuno osò ribattere.

Il capo era lui, era più alto di una mano di tutti noi, anche se aveva solo 11 anni, solo due anni più di noialtri,e si diceva che conosceva le donne e quelle cose che si fanno con loro.

Una volta aveva portato la Vera nel sottoscala e le aveva tolto le mutande, mi aveva detto lo sgranino in segreto mentre i denti scricchiolavano più che mai con un rumore di sega metallica.

“dobbiamo tenerla nascosta. Sennò la mamma la viene a riprendere, e poi in casa non ci può stare.. rimarrà laggiù, nel capanno, faremo a turno la notte per sorvegliarla.

I bambini annuirono, le guance rosse eccitate dal gioco nuovo.

Ora andiamo, ordinò il capo.

In fila indiana lungo l’argine,il capo in cima sotto il sole rovente, mentre le rane impazzite si rincorrevano su note diverse e le cicale stordivano con canti assordanti.

  1. così, come d’accordo.

Portavamo lombrichi, larve di insetti e ranocchi spellati alla civetta, che li ingoiava interi, senza masticare,

aveva imparato le voci dei bimbi, quando si apriva la porta del capanno frusciava le ali, cercava di muoversi, ma non poteva.

Rimaneva là, rannicchiata, con quella aluccia mezza spiegazzata che sembrava un pezzo di ombrello rotto,

ma mangiava ogni giorno, e il tempo passava, si avvicinava la sera dei morti.

Un giorno andai al capanno, la porta era aperta.Guardai a lungo sotto il fieno, in mezzo alle gabbie dei conigli, fra le vanghe, sotto l’aratro.

Non c’era.Era fuggita, aveva scelto di essere libera.

Manola, lascia aperta la porta, che arriva il marito dell’Egle con il vitello, sennò quello scalcia e fa il matto e prima lo lego e lo rinchiudo meglio è, avvertì la nonna, da dietro la casa.

Così la festa dei morti sarebbe stata senza di lei, la regina della notte. La misteriosa che parla con gli spiriti del bene e del male.

Tutti i bambini raccolsero zucche enormi, le portarono sull’aia ad asciugare al sole sempre forte di ottobre.

Poi con coltellini aguzzi le svuotarono della polpa e dei semi, mente le galline accorrevano a rubacchiarsi tanta succulenza.

Poi intagliarono gli occhi, la bocca seghettata… un smorfia di orrore, il gioco era pronto.

Appendemmo le zucche ai rami degli alberi dintorno alle case, illuminate dentro da lumini accesi.

La sera era calma, la luna splendeva placida, nella notte priva di vento.

Si intuiva un presagio di temporale, gli insetti impazziti turbinavano intorno alle piante, le rane tacevano, le zanzare aggredivano come fosse l’ultima notte.

Accendemmo un falò ai bordi dell’aia,

Vincenzino iniziò la canzone… noi lo seguimmo, la litania ci prendeva, la Vera iniziò a ballare scalza sotto le stelle, sull’aia deserta.

La sarabanda dei morti.

Le lanterne spandevano luci rossastre sui volti accesi dal gioco, proiettavano ombre cinesi sui muri delle case dei contadini.

Gli spiriti tacevano,forse assistevano, affascinati.

Vincenzo, è tardi! Vieni a dormire!

Bambini, a letto!ordinò un voce,

La notte dei contadini inizia presto, dopo il calare del sole.

Rispondemmo appena, per non interrompere la magia della danza,

Il fuoco acceso era cresciuto. Ora era alto. E crepitava forte così che non sentimmo il tuono che ruggiva lontano.

Si alzò rapido improvviso un brivido di vento. Una folata secca e violenta che si attorcigliò in un vortice di foglie e di polvere.

Squassò le foglie, i rami dell’albereta, partì da lontano e si abbattè sul falò, storcendo al fiamma.

Nero e viscido qualcosa si alzò, proiettò la sua ombra sul muro del cascinale, poi mi sfiorò i capelli, mentre un scia di polvere si allargava sull’aia deserta… è lo spirito è arrivato… il fuoco si scosse, tremò, sussultò, poi riprese e un rombo potente si abbattè sulla campagna addormentata.

Fuggimmo senza pensare, inseguiti da uno stormo nero di pipistrelli storditi dalla luce e dal calore, disturbati dal temporale,

Corsi col cuore che mi scoppiava, corsi senza sapere da che parte andavo, la notte era nera come la pece, la luna si era oscurata dietro un nuvola spessa,

Corsi fino a che ebbi fiato, ma inciampai in una radice e caddi, dentro un buca, un buca fonda che si aprì d’un tratto sotto i miei piedi,

Caddi con un tonfo, precipitai nel buio Guardai in su, il cielo era nero e lontano,. Le stelle puntini invisibili, incapaci di luce.

Aiuto, gridai, ma sapevo di aver corso troppo e che nessuno poteva sentirmi.

Cercaci un appiglio, mi arrampicai alla parete, ma era tutto liscio e io troppo stanca.

Ebbi paura, mi misi a piangere piano, un pianto lungo, dirotto, che mi lavava il viso, la camicetta bagnata di sudore, sarei morta laggiù , del freddo della notte, morsicata dai topi,

Rimasi dentro quella buca non so quanto tempo, la testa sulle ginocchia, in preda al terrore,mente la guazza della notte gelava le mie gambe nude, le ginocchia spigolose di bambina.

Poi il pianto mi calmò.Mi sentìi più forte e trovai il coraggio di guardare in su.

La notte era fonda, la luna scomparsa. Ma qualcosa frusciava fra i rami, un ciangottio amico, un richiamo… tutu mio… tutu mio.. guardai ancora e la vidi, due piccoli fari gialli che mi fissavano, lassù.

Non ero sola.Cercai con le mani un appiglio, strisciai come una biscia e trovai, più su, un punto dove potermi appoggiare, aggrappata ai sassi che sporgevano.

Chiamai, urlai aiuto, ma nessuno mi sentiva.. poi la luna si aperse, svelò la sua faccia enorme, chiara come un lampada accesa. E allora salii senza paura verso la cima.

Dove sei ?

Sono qui, sto tornando a casa.

Ma dove sei stata? Ti cerchiamo tutti da ore.

Vidi gli uomini e i bambini che correvano verso di me , la nonna aveva un fazzoletto nero in testa e una vanga, mi abbracciò e mi disse che ero un bimba coraggiosa, ma che non dovevo farlo mai più

Guardai verso il fondo, dove la macchia era più fitta.

La civetta era volata laggiù, ora che la sua ala rattrappita si era spiegata.

Non la rividi mai più. Ma certe notti, quando tutto si ferma e la natura sembra in attesa di un miracolo, una rivelazione, quando il vento tace e si sente la terra che respira e esala i suoi odori più fondi talvolta lo sento, lontano, il suo grido amico , e mi piace pensare che chiama noi, dal folto del bosco.



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