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La fucina degli Dei

Fiaba pubblicata da: Silvana

Tanto lontano nel tempo e tanto lontano da noi, esisteva un’isola grande quanto un bottone.

L’acqua che la circondava era diamantina, potevi vedere i pesci guizzare nella marina, le alghe galleggiavano come ciuffi d’insalata fresca, e le sfiziose vesti dei celenterati fluttuavano nella vasca. Sul bagnasciuga pullulava la vita, crostacei ci facevano la camminata e i molluschi si ritiravano a mulinello, nella rena piatta come francobollo.

Una varietà di reperti sparsi sulla sabbia, alcuni risalenti all’epoca della bibbia, con i quali ti saresti sbizzarrita nel creare monili, imitando la maniera dei gioielli tribali. Le dune erano un balsamo da respirare, una profusione di piante nane, difese da un groviglio di fusti di qualunque volume, intarsiati da un eccelso cesellatore, da tinte e forme diverse, agghindate le chiome, offrivano alla vista un sovrano vedere.

Nel cielo, l’astro era generoso e i volatili si esibivano con gorgheggi d’oro mentre le piume, la tavolozza facevano inquietare e di notte, Selene luceva in compagnia di una frotta di stelline. Sorgenti nell’entroterra formavano corsi e specchiere, riflettendo l’attorno come berillo e sfumature d’opale, uova si schiudevano, gli spettri si lasciavan guidare e ogni animale ci andava a bere.

Solo una capanna vi era, abitata da un omino dalla carnagione scura e una donnina dalla pelle chiara. Nei loro cuori vibrava come nell’enarmonia il sentimento, ma un velo di amarezza rendeva lo sguardo spento poiché, pur disponendo di un mondo festoso, favella non avevano per decantare il maestoso. Comunicavano a gesti come mimi e dalla bocca uscivano solo vocali, in cerca erano della chiave panacea per dar voce ad altri suoni con i quali poter formare parole, e le cose con un nome immortalare.

Quand’ecco che un giorno facendo raccolta nella macchia, era la stagione in cui un frutto maturava, ne scovarono una così grande in una nicchia che la stessa non la conteneva. Paffuta come bimba ben nutrita, rossa che la rapa era sbiadita, l’aspetto da cuore vispo, per copricapo tre foglioline le davano sembianza da elfo e tanti puntini la rendevano graziosa, una maschera che, il neo, elogia.

Per la miseria! Esclamarono all’unisono e si guardarono sbigottiti, avevano pronunciato la prima frase ed era un’espressione addirittura di base! Neanche avessero bevuto una damigiana di moscato, i piedi si mossero come affetti dal ballo di San Vito. Quando calmarono i bollenti spiriti, guardarono il prodotto rapiti e gli dissero: “Ti chiamiamo fragola, giacché quando ti vedemmo la prima volta, sentimmo un’acquolina fra gola e ugola”.

Da lì in poi ci fu un marasma di fonemi, ringraziarono i santi numi. L’un l’altra si destinarono il nome: Fulgido, per via della lucentezza dell’incarnato; Ombretta poiché la sagoma che la seguiva come le sue pupille era nera.

Nel rincasare denominarono le cose simile a zibaldone: Sequoia, dattero, corallo, paradisea, kentia, pavonia, cercopiteco, pietra, acagiù, cardamomo, colibrì, bacca, ragno, canoa, madreperla, moretta, rododendro, orchidea, cedro, spatifillo, rospo, cactus, sandalo, fucsia, aspidistra, stapelia, tellina, cocco, morchella, procellaria, granchio, arsella…. Era un’epifania!

Varcata la soglia si misero all’opera per dare come talismano senso tangibile a quelle sillabe. Fecero prova su prova e infine compilarono l’abbecedario. Ombretta e Fulgido ebbero tanti figli e figli dei figli dei figli, grazie alla loro discendenza, a noi sono arrivati tutti i vocaboli e continuano ad arrivarci, tramite aggiornamento del dizionario, i neologismi.

Vuoi sapere che nome diedero all’isola? Conoscenza! E facciamo sbocciare fiori se nell’apprendere adottiamo la pazienza.



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