lupo-guerra

Il lupo e la guerra

Fiaba pubblicata da: Monica F.

C’era una volta, un bellissimo cucciolo di lupo dagli splendidi occhi viola e il pelo color del miele di nome Scheggia. Allegro, paffuto e pieno di vita, la creatura cresceva accanto ai suoi genitori all’interno del suo branco fiero e orgoglioso, imparando le leggi che regolavano la natura, pronto un giorno a divenire anch’egli un lupo adulto forte e responsabile, capace di dirigere un gruppo suo.

Ma di colpo una mattina, al far dell’alba, mentre tutti gli animali della foresta erano ancora addormentati e il cielo si stava lentamente aprendo coi suoi tenui colori, un boato enorme fece tremare ogni cosa e svegliatisi di soprassalto sotto i colpi inferti dalle granate, a far sussultare il suolo e scuotere gli alberi alle radici facendoli cadere uno ad uno, le bestie sgomente si guardarono impaurite, percependo l’odore acre dell’Uomo venire a disseminare penuria e morte.

“La Guerra! La Guerra è arrivata fino a noi, gli Uomini che si uccidono l’un l’atro all’interno delle loro mura, sono venuti a spargere sangue anche qui, devastando le nostre selve e le nostre esistenze! Si salvi chi può!” aveva urlato il giovane merlo fuggendo a perdifiato, dispiegando le sue ali.

Lo sguardo di Scheggia si perse allora, d’improvviso, smarrito. Tutti. Tutti attorno a lui erano morti, e muto, unico superstite, fortunato a trovarsi in una grotta lontano dal luogo della deflagrazione di quell’ordigno, plasmato dalla mente dell’Uomo per uccidere, si guardava intorno esterrefatto, senza neppure il suono del suo ringhio a confortarlo, muto, senza parola alcuna che fosse di consolazione o di salvezza. 

Era quella, la Sventura che la Creatura Umana aveva creato per distruggere se stesso e gli altri, era quella ciò di cui aveva sempre sentito parlare dai saggi del branco, quando di notte dall’altura fissavano verso la città le fiamme alte ardere e demolire, nella speranza che il braccio umano si fermasse.  Era quella: “La Guerra”.

Di colpo la sua vita sembrò cambiare radicalmente, senza che lui avesse mosso una sola zampa per farlo avvenire. Senza cibo, orfano, costretto a vivere di espedienti e a sperare che il cuore dell’Uomo si ravvedesse, la sua pancia era sempre più vuota, gli occhi umidi. Della sua schiera non era rimasto nessun elemento, e lui doveva farsi forza e fuggire giorno per giorno dalla Guerra, nutrendo la speranza della Pace.

Una notte ormai allo stremo, col muso rinsecchito, il corpo tutt’ossa, gracile, sporco ed emaciato, spinto dalla fame in cerca di cibo, il povero Scheggia scese dalle montagne verso la città, trovandosi dinnanzi (se fosse stato possibile per la sua immaginazione) uno scenario ancora peggiore: il paese era divenuto un posto disseminato da cadaveri ovunque, braccia spezzate, volti senza espressioni riversi al suolo, case svuotate, fucili gettati in ogni angolo delle strade, fetore di corpi battuti.

E a quella vista il povero lupo si chiese il perché di tanto spargimento, di tanto dolore, di tanta malvagità, quale obbiettivo avesse mai potuto perseguire l’Uomo, bramare di così importante, atto a giustificare tanto orrore e l’uso così indiscriminato di quel suo bastone a spargere fuoco e bossoli di ferro.

La Guerra! Illogica sventura del Genere Umano a farlo piegare, Odio sopra l’Amore! Odio, Amore che diveniva in quel momento, per una ragione insensata parola semplice, su cui poter sputare a gran voce.

E udendo di colpo venire di lontano un lamento, proveniente dalle labbra esangui di una ragazzina, distesa in una pozza di sangue, dal petto crivellato di proiettili, la camicia incollata addosso e la gonna a fiorellini ormai irriconoscibile, il lupo le si avvicinò adagio, guaendo, scoprendo fra le sue mani un foglio stropicciato stretto in pugno, e dirigendo il muso in direzione dell’oggetto ne lesse la grafia gentile, provando una stretta al cuore:

Ospite
fra filari di more
un pettirosso

Era uno haiku, una poesia scritta da lei all’interno di una raccolta che aveva titolato col nome di “Lettera Ventuno”. E sentendola spirare al suo fianco, felice la giovane di trovarsi accanto una compagnia a renderle meno faticoso il trapasso, gli occhi di Scheggia si colmarono di lacrime “Era questo l’Essere Umano? Creatura capace di uccidere finanche i suoi stessi cuccioli?”. 

No, non c’era una ragione, un motivo valido per distruggere tanta bellezza: la bellezza della Vita, del respiro, dei sorrisi della poesia, e scuotendo il capo puntò verso la luna, mentre il fragore dell’ennesima mina lo colse allo sprovvista, riempiendogli le orecchie, troppo vicino per scansarla e uscirne vivi, in quel mare mai fermo d’odio, e il suo sguardo si chiuse in un solo volo di piume.



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