Il nido di ferro

Fiaba pubblicata da: Carlo-Maria Negri

C’era una volta un’aquila reale che volteggiava serena sopra i cieli del suo regno insieme alla sua inseparabile corona. Vola di qua e vola di là, presto il nobile uccello si stancò e andò a posarsi su una grande quercia.

“Ah, che bello il mio regno da quassù! Con i suoi alberi, le sue montagne e i suoi laghi scintillanti” disse fiera, tra sé e sé. Quand’ecco che in lontananza risuonò uno strano canto all’orizzonte: “Gragragra!-Gragragra!” diceva. “Ma cos’è questo canto?” domandò l’aquila, sorpresa. “In vita mia, giuro, non ho mai sentito nulla di simile. Sarà forse un suddito ammalato?”.

Così, morsa dalla curiosità, l’aquila spiccò presto il volo per controllare la situazione. Vola, vola e arrivò sopra a uno dei tanti splendidi laghi del regno e vide un grosso uccello rosa, con lunghe zampe sottili sottili. L’aquila gli sfrecciò accanto, per poi atterrargli vicino, e disse: “Chi sei tu? Non ti ho mai visto da queste parti”. L’uccello dal pigmento roseo notò la corona in testa all’aquila e per rispetto si inchinò d’innanzi alla sovrana, e disse: “Sono un fenicottero e vengo dal lontano Oriente”. “Dall’Oriente!” esclamò l’aquila, incredula che aggiunse: “Devi aver volato per settimane e corso mille pericoli per venire fino a questo laghetto. Cosa ti ha spinto a migrare così lontano?”

Il fenicottero non rispose anzi, quasi quasi rabbrividiva al ricordo di quella terra lontana, che una volta poteva chiamare affettuosamente casa. “E allora?!” insisté l’aquila. “Be’, la miseria” rispose il fenicottero. “Sono fuggito dalla siccità, dalla carestia e dai venti impetuosi che da tempo hanno trasformato un’oasi di vita in una landa desolata”. L’aquila, a sentir ciò, si commosse molto e per il bene del fenicottero gli concesse asilo nel suo bel regno, per poi ritornarsene verso la grande quercia.

La mattina seguente però l’aquila reale si svegliò nel frastuono di mille e più uccelli, lì accorsi da tutto il regno per protestare: “I nostri laghi sono pieni di fenicotteri! – cinguettò uno scricciolo all’aquila – Ci mangeranno tutto il pesce” e ancora: “Siamo invasi! – picchiettò un picchio – Oltre ai fenicotteri sono arrivati pure gli struzzi. In questo regno non c’è posto per loro!” E così via. Ogni uccello del bosco aveva la sua da dire: nessuno voleva altri uccelli nel regno all’infuori di loro stessi.

Presa da quel trambusto per poco all’aquila non scivolò via la corona dal capo e dimentica d’ogni misericordia, ordinò ai corvi di costruire un nido a rovescio, così grande da poter contenere tutto il regno. E così fu. Ai suoi confini già centinaia di stormi neri edificavano intrecci di rovi sempre più fitti e robusti, e sempre più alti. Talmente alti e spessi da scurire tutto il cielo. I popoli dei regni vicini videro realizzare il più grande nido mai costruito, ma invece di accogliere gli uccelli li respingeva, come lo scudo di un guerriero e lo soprannominarono il nido di ferro.

Il tempo intanto passava e gli alberi del regno cominciarono ad insecchirsi, le montagne divennero ombre minacciose e i laghi, una volta scintillanti, si prosciugarono: il grande nido di ferro aveva soffocato il cielo, né la luce del sole né l’acqua potevano più passare da quelle fitte pareti finché un giorno l’aquila reale volteggiò inquieta sopra un regno ormai morto e stanca del suo vagare andò a posarsi sopra le rovine di quel reame: “Ah, che tristezza – mormorò tra sé e sé la sovrana -. Un tempo sentivo il carezzevole fruscio del vento tra le ali libere di un usignolo. Ma adesso sento solo il gracchiare dei corvi nel silenzio di una notte senza fine”.

L’aquila reale strinse tra le sue ali la corona e la gettò. Così fuggì anche lei, come tutti, in un altro reame: lontana lontana dalla miseria, dalla carestia e dall’ignoranza di chi si fa vincere dalla paura.



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