Soloinsieme
Il pastore Dino aveva cercato per tutto il giorno sei delle sue pecorelle che si erano smarrite. Giunta ormai la sera era ritornato al resto del gregge molto deluso e triste, con un peso dentro… Soloinsieme
Questa la raccolta personale di Anna Consolo. Puoi contribuire anche tu al progetto "Ti racconto una fiaba" inviando i tuoi testi attraverso l'apposita pagina invia la tua fiaba.
Il pastore Dino aveva cercato per tutto il giorno sei delle sue pecorelle che si erano smarrite. Giunta ormai la sera era ritornato al resto del gregge molto deluso e triste, con un peso dentro… Soloinsieme
La vita per i due innamorati, Dono e Splendente, trascorreva felice.
Non avevano bisogno di null’altro che del loro amore. Ma dopo un anno di vita insieme, cominciarono a sentire dentro il loro cuore qualcosa di non ben definito, una specie di sfarfallio, già, come il volo di una farfalla imprigionata, che fosse un desiderio che non riusciva a volare? Decisero di chiamare questo non so che “voglia matta”.
Ecco, non era come la smania di mangiare le more o le fragole del sotto bosco e neppure come l’irrefrenabile voglia di andare a correre lungo la spiaggia e cavalcare le onde, che sapevano di poter appagare, era proprio una strana voglia, matta, appunto!
A volte era così invadente che si sentivano molto turbati, ma non appena l’elfo Dono strofinava il proprio naso sul naso di fata Splendente, ritornava la gioia e la serenità che da sempre li abbracciava. Dall’alto della loro casa, il cipresso, guardavano la vita del mondo animarsi e quando cresceva l’esigenza di avere degli amici intorno, non potevano fare a meno di scendere e confondersi con gli alberi e i fiori.
Mirò è uno dei tanti abitanti del bosco di Caidate, un piccolo paesino vicino Varese. Chi ha avuto la fortuna d’incontrarlo, e succede proprio raramente, pare l’abbia descritto come un esile gnomo biondo, con lunghi capelli e orecchie a punta, i suoi piedi sono più lunghi delle orecchie e, le sue scarpe appuntite, lo sono ancor di più, quasi come le dita delle sue mani.
Indossa pantaloncini neri sopra una calzamaglia azzurra, una giacca rossa con le frange e un cappello-campanello a quattro punte color arcobaleno che suona a tutto “drin”, sia quando è allegro o preoccupato, sia quando semplicemente, si china in avanti per guardare le punte delle sue scarpe. Lui vive felice nella sua casetta bianca e rossa, un grande fungo amanita con l’ ingresso sul gambo.
Giro, giro, tondo
ma solo dentro al mondo
un salto in quello giallo
lo faccio col cavallo,
un salto in quello rosso,
sorrido a più non posso.
Un salto in quello nero
si gioca per davvero,
un salto in quello bianco
non sono ancora stanco.
Mentre scendevo giù per le scale, sai chi ti vedo, intanto che sale?
Una fata! Per davvero!
Proprio no, non ci credevo!
Era bionda e assai graziosa
col vestito tutto rosa,
un cappello con gran falda,
quattro trecce, ma tu guarda!
Quattro ali sulle spalle
come l’ hanno le farfalle.
Un gran fiocco sulla vita,
come mai qui era finita?
Lei mi guarda sorridente
sussurrando dolcemente:
“sono Flora, una fatina,
mi son persa stamattina,
sai, andavo un po’ di fretta
e ho scordato la bacchetta,
La fatina Flora
C’era una volta, nell’arco di cielo che ancora oggi guarda l’Elba, una stella luminosa. Era talmente luccicante che la regina delle stelle le aveva dato il nome di Splendente.
Si mormorava nel firmamento che il suo brillare dipendesse dal fatto che fosse innamorata. Anche durante le ore del giorno, quando la luce del sole nascondeva ogni astro, Splendente fissava lo sguardo sull’Elba verso una chiazza verde al centro dell’isola. Proprio in quel punto, viveva l’ultimo degli elfi. Splendente con l’ espressione sognante lo osservava per ore quasi stregata dal suo canto melodioso e dalla sua gioia di vivere. L’ultimo elfo le pareva felice perché non faceva altro che saltellare e cantare tutto il giorno. Viveva da solo ormai da dieci anni e quando sua madre dovette lasciarlo lo fece a malincuore, sapendolo l’ultimo della specie, perché senza speranza, ma era stato un miracolo tanto inaspettato che non poterono fare a meno di chiamarlo Dono. Il padre di Dono era svanito, non nel senso di distratto, era proprio scomparso e a sua madre non rimase altro che seguirlo. Questo è il destino degli elfi e delle fate che si uniscono: per sempre!
Sette lunghe lune erano trascorse da quando Ram, maharaja di Benares nell’India del nord, aveva fatto uno strano sogno. Aveva visto cadere nel cuore della notte una grossa palla di fuoco che aveva illuminato così tanto la terra da far apparire le acque del fiume Gange, dorate. Si era svegliato di soprassalto per l’immenso chiarore e, sudato per il calore di quell’evento, si era precipitato verso la finestra per la curiosità . La vista di una notte placidamente stellata invece, lo fece tornare sui propri passi fin sotto la calda coperta di pecora che scostò istintivamente. La luce abbagliante del sogno però, stentava a scomparire, così che il povero Ram si ritrovò ad affrontare il giorno con gli occhi e il corpo affaticati. Da sette mesi ormai gli capitava la stessa cosa ogni notte e per quanto egli fosse un saggio rinomato per lo studio della medicina e delle stelle, non servirono le sue conoscenze a rendere più serene le sue notti. Nell’ala ovest del gran palazzo del saggio Ram, viveva la serva