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La metafora della vita

Fiaba pubblicata da: Massimo Ferrario

Era la Festa di Metà Estate, nel piccolo villaggio a mezza costa sotto la Montagna Più Alta del Mondo.

Grande Vecchio e Piccolo Uomo avevano lasciato la vetta di buon mattino e avevano raggiunto le prime case poco dopo mezzogiorno, attraverso il sentiero che si snodava a serpentello per boschi e radure.

Il pomeriggio sarebbero cominciati i canti e le danze, con giovani e vecchi che per l’occasione avevano indossato i costumi della tradizione. E la festa sarebbe durata tutta la notte. Piccolo Uomo aspettava con trepidazione di assistere allo spettacolo: quest’anno, poi, sarebbe arrivato anche un gruppo di saltimbanchi, la cui fama si tramandava di valle in valle.

A Grande Vecchio non era pesato abbandonare la compagnia dei suoi monti, ai piedi dei ghiacciai eterni: ogni tanto, tornare tra gli uomini, fa bene allo spirito. E poi, per Piccolo Uomo che tanto desiderava questa giornata, nulla era sacrificio.

Furono notati subito. Tutti i montanari si inchinavano al passaggio di Grande Vecchio, portando le mani giunte al petto, e sorridevano a Piccolo Uomo. E Grande Vecchio rispondeva, abbassando a sua volta dolcemente il capo, con uno sguardo caldo e beneagurante.

Arrivarono nella piazzetta, dove si stavano ultimando i preparativi per le prime danze e veniva montata l’impalcatura per i saltimbanchi.

Un uomo, uno straniero venuto dalla città, vedendo Grande Vecchio di lontano, gli si precipitò davanti.

«Tu sei Grande Vecchio, vero? Colui di cui tutti i villaggi e le città parlano. Colui che sa tutto e che ha una riposta per tutto».

Il tono era leggermente canzonatorio e faceva intuire una voglia di sfida.

Piccolo Uomo si fece vicino a Grande Vecchio e gli toccò la veste, vagamente preoccupato. E subito si formò un capannello di persone, incuriosite.

«La vita sia con te, uomo», rispose Grande Vecchio, con un ampio sorriso.

Poi proseguì.

«Affermi cose giuste e sbagliate insieme. Sì, mi chiamano come dici. Ma per il resto sei in errore: non sono il sapiente che tu immagini o che altri pensano. Conosco l’ignoranza, e l’unica cosa che so è che ho da imparare».

«Bene. Vediamo allora se stai imparando abbastanza», riprese l’uomo, questa volta con un atteggiamento chiaramente sprezzante.

Poi, alzando la voce rivolto alle persone attorno, scherzò: «Guardate, voi che onorate il Grande Vecchio come il Sapiente della Storia, guardate».

Un uccellino si era appena posato sul muricciolo accanto. L’uomo, con un colpo rapido, lo prese in mano, nascondendolo nel pugno. Si levò un oh di sorpresa. Anche Piccolo Uomo si stupì della rapidità con cui l’uomo aveva bloccato il passero, ma era infastidito dal suo modo di fare, così arrogante e provocatorio.

«Ecco, Grande Vecchio, l’hai visto: l’uccellino è nelle mie mani. Adesso dimmi: è vivo o morto?».

Lo straniero aveva formulato la domanda con spavalderia. Era convinto di aver preso in trappola Grande Vecchio: se la riposta fosse stata “vivo”, lui avrebbe stretto il pugno e avrebbe fatto vedere l’uccellino morto, mentre se la risposta fosse stata “morto”, lui avrebbe aperto il pugno e avrebbe mostrato l’uccellino vivo.

Il capannello si era infoltito. Ormai, praticamente tutto il villaggio era accanto allo straniero: gli occhi erano fissi su Grande Vecchio, in attesa della risposta. Sapevano che sarebbe stata giusta e che l’uomo avrebbe dovuto riconoscere e onorare la sapienza di Grande Vecchio.

Piccolo Uomo strinse la mano di Grande Vecchio, come per comunicargli in silenzio la sua voglia di andar via. Ma ormai, attorno a loro, si era fatto un cerchio difficile da rompere. Allora Piccolo Uomo sbottò: «Quest’uomo non merita la tua risposta, Grande Vecchio». Grande Vecchio inviò un’occhiata rassicurante a Piccolo Uomo.

«Che fai, Grande Vecchio, non mi rispondi?».

«No, uomo. Non ti risponderò. Ma non perché non lo voglia, solo perché per rispondere ci vuole una domanda».

«Te l’ho fatta, Grande Vecchio», protestò lo straniero.

«Una domanda esige un animo puro. Il tuo mira all’inganno», riprese Grande Vecchio.

Tutti annuirono, pur senza capire.

Allora Grande Vecchio, ignorando lo straniero e volgendo gli occhi attorno, disse. «Alla vostra domanda, che è pura benché inespressa, debbo invece una risposta. L’uccello è come l’uomo vorrà che sia: se lui stringerà il pugno, l’uccello sarà morto; se lui lascerà il pugno, l’uccello sarà vivo».

Ancora una volta, gli uomini del villaggio si inchinarono alla saggezza di Grande Vecchio, mentre lo straniero, con il volto scuro come la notte, stava per allontanarsi in silenzio.

Ma Grande Vecchio lo toccò sul braccio, mentre già gli aveva voltato le spalle.

«Aspetta, uomo. Non te ne andare senza prima aver ricevuto un mio grazie sincero».

L’uomo guardò Grande Vecchio con aria interrogativa: voleva prendersi gioco di lui? Gli occhi però lo convinsero che non c’era scherno e che il ringraziamento era genuino.

«Perché mi ringrazi, Grande Vecchio?».

«Ti avevo detto che non so, ma cerco di imparare».

«E allora?».

«Da te ho imparato».

L’uomo era sempre più frastornato. E anche Piccolo Uomo, che pure un attimo prima si era sentito sollevato per la risposta data a quel provocatore, non capiva.

Grande Vecchio terminò il suo pensiero: «Mi hai insegnato una metafora, con la tua falsa domanda.».

«Io? Io ti ho insegnato una metafora? E quale?».

«Quella della vita. Che è come la vogliamo. La puoi soffocare, se chiudi il pugno. La puoi liberare, se apri il pugno».

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Massimo Ferrario, 1999 – In M. Ferrario (a cura), Mixtura 2000, Dia-Logos, Milano, dicembre 1999. – Rielaborazione creativa e ampliata di una favola persiana, citata in P. D’Aubrigy, ‘Il libro degli esempi’, Gribaudi, Torino, 1991.



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