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La leggenda di Achatina, la Donna Chiocciola

Fiaba pubblicata da: Tiziana Basciu

Nessuno sapeva da dove venisse o chi fosse. Per tutti era Achatina, la “Donna Chiocciola”. Da quando era arrivata al villaggio, la notte si accoccolava dentro una grande conchiglia, che aveva sistemato alla fine del bosco, sotto un cedro del Libano secolare, e si abbandonava al sonno.

Quel guscio era l’unica cosa che possedesse. La sua unica protezione, il ponte tra il passato e l’avvenire, la sola speranza di salvarsi e, un giorno, vivere felice. Circolavano molte voci su di lei: forse era uno spirito, un dono del bosco, delle fonti e della cascata. Forse veniva da mondi lontani, o da un altro pianeta.

Forse era frutto di una magia o di un sortilegio. Parlava la loro lingua, ma non era una di loro. Il suo cuore grande conteneva tutto e tutti. La sua anima, però, era stretta come la chiocciola in cui abitava, inaccessibile, teneva fuori il mondo intero.

Achatina era piccola e fine, forte e tenera allo stesso tempo. I lineamenti delicati, i capelli ramati folti e ricci facevano pensare alle fate dei boschi: forse era una di loro, ma nel villaggio non potevano dirlo con certezza, perché nessuno ne aveva mai vista una. C’era chi diceva che si svegliasse molto presto, prima del sorgere del sole, e che corresse nuda nel bosco. Che arrivasse alla cascata, che domina dall’alto il fitto degli alberi, si lavasse alle sue acque e da lì traesse la sua vitalità.

C’era chi giurava che non uscisse mai dalla conchiglia prima di mezzogiorno, quando il sole, finalmente, attraversate le folte chiome del cedro, bussava alle sue palpebre ancora abbassate, invitandola a schiuderle e ad aprirsi alla vita. Si diceva che la notte non dormisse, che chiamasse a raccolta gli spiriti, suoi simili, e cantasse e ballasse con loro alla luna, in un rituale che ciclicamente accompagnava le sue fasi. Forse era vero ciò che si raccontava, forse erano invenzioni delle malelingue. Di certo molti l’avevano vista alle rovine del castello, nel mezzo del bosco, seduta alla finestra a sesto acuto che domina l’altopiano di fronte, ad asciugare i capelli al sole, prima di raccoglierli e appuntarli sulla nuca.

Alcune donne dicevano di averla incrociata, cariche, di ritorno dal mercato, e lei si era offerta di portare per loro le borse della spesa. Alcuni uomini raccontavano di averla vista, di ritorno dalla campagna, intenta a curare la zampa ferita di un asinello da soma, a recuperare un agnellino incastrato nei rovi, a salvare un cucciolo smarrito. Quegli incontri non suscitavano la simpatia della gente, ma alimentavano chiacchiere e pettegolezzi. Solo i vecchi l’amavano: faceva loro compagnia, preparava da mangiare.

Puliva la loro casa, con la scusa che a pulire la sua ci volevano pochi minuti. Spazzava il camino. Portava un po’ di legna fine, quando la raccoglieva per sé: nel bosco ce n’era tanta. Leggeva per chi aveva perso la vista e cantava per chi non aveva più voce per farlo da solo. I bambini, invece, la andavano a cercare. Li aiutava a studiare poesie e tabelline, quando erano disperati per l’interrogazione. Curava le ginocchia sbucciate e lavava al laghetto gli abiti sudici, prima che facessero ritorno a casa e le mamme si adirassero. Mostrava i sentieri del bosco e ne svelava i pertugi nascosti. Raccontava storie, leniva dispiaceri, ascoltava segreti sussurrati, dissipava tristezze. Aveva per tutti la parola e il consiglio giusto.

Un giorno arrivò un forestiero. Negli ultimi tempi si diceva che accadessero strane cose nel bosco e la gente non era più tranquilla. C’era bisogno di un guardiano. Nessuno al villaggio aveva accettato quell’incarico, così avevano mandato missive nei villaggi intorno e in quelli più lontani. Ed era arrivato lui. Aveva tratti e colori diversi da loro. Era molto alto e molto grosso.

Camminava lentamente, un po’ curvo, rannicchiato su se stesso, quasi a voler occupare meno spazio, a non voler disturbare. Non parlava con nessuno: solo il Primate aveva udito la sua voce, quando gli aveva affidato l’incarico. Aveva detto di voler star solo, che voleva essere lasciato in pace. Poi era andato ad occupare la casetta del custode, in fondo alla piccola radura vicino al cedro.

Da quel giorno, Achatina ebbe un vicino. Al villaggio avevano paura di lui. Si raccontavano storie spaventose sul suo passato. Si diceva che fosse nato molto lontano, nei boschi del Nord, in mezzo agli orsi, con cui era cresciuto. Si diceva che una Strega gli avesse negato l’unico amore della sua vita e che lui l’avesse fatta a pezzi con le sue stesse mani. Allora si era strappato il cuore dal petto, per smettere di soffrire, e aveva iniziato a viaggiare lontano, sempre più lontano, per dimenticare. La Donna Chiocciola non credeva alle voci della gente, sapeva bene quanto potessero essere malvagie.

Incontrava il custode mattina e sera, quando usciva di casa e vi faceva ritorno. Lo salutava allegramente e gli raccontava qualcosa. Lui non rispondeva mai. La guardava a lungo, in fondo agli occhi. Quelli dell’uomo avevano il colore del mare ed erano malinconici e buoni. Come i suoi conoscevano la sofferenza, l’incomprensione e la solitudine. Prese a spiarlo mentre lavorava nel bosco, quando liberava gli animali indifesi dai lacci dei bracconieri, quando curava le ferite che i legnaioli maldestri procuravano ai tronchi degli alberi, quando sistemava i nidi caduti: quelle mani grandi sapevano essere delicate, quasi materne. Capì che non sarebbero state capaci di far del male ad alcun essere vivente. Non aveva paura di lui, anzi divenne per lei una presenza amica e rassicurante.

Iniziò ad occuparsi del guardiano del bosco, così come faceva con gli abitanti del villaggio. Se cucinava la minestra, preparava una torta o andava a prendere erbe medicamentose, per farne unguenti, ne lasciava anche per lui davanti alla sua porta. Spesso gli faceva trovare delle piccole pergamene con una storia o una poesia scritte da lei. La notte Achatina leggeva o canticchiava sottovoce, per cullarsi, prima di abbandonarsi al sonno. A volte, vedendolo passare, il guardiano del bosco le sembrava particolarmente triste. Allora alzava un po’ la voce, sperando che gli arrivasse, che non si sentisse troppo solo.

Passò del tempo prima che lui rispondesse a quelle piccole cortesie da buon vicinato. Con l’arrivo dell’autunno non tornò più a mani vuote dal suo lavoro: le lasciava nei pressi della conchiglia, che le faceva da giaciglio, funghi, o frutti di bosco. In inverno le portava un braciere caldo o, se tardava, accendeva un bel fuoco vicino al cedro. In primavera la sorprendeva con cestini di frutti piccoli e deliziosi e con tanti fiori, dai mille colori e meravigliosi profumi.

Man mano che le serate si facevano più lunghe e calde, lo vide sempre più spesso fuori dalla casetta a fare piccoli lavori, a sistemare le aiole per troppo tempo rimaste incolte. Un giorno, notò che stava costruendo qualcosa con degli assi di legno. Nonostante il martellare, si addormentò prima che lui avesse finito. La mattina dopo scoprì che, davanti alla casa, ora, c’era una panchina. Una comoda panchina a due posti. Sopra vi aveva sistemato un mazzo di fiorellini di campo e un biglietto: “Ti aspetto stasera”. Lo prese in mano, tremando e, quasi senza respirare, se lo strinse al seno. Era felice! A sera, quando mise piede nella radura, lo trovò ad attenderla sulla panchina. L’uomo la avvolse nel suo abbraccio. Lei gli posò il capo sul petto e ascoltò il suo cuore. Più tardi gli raccontò la sua vita, da quando era arrivata al villaggio. Prima, disse, era buio nella sua mente. Non si trovava male con la gente del luogo, ma non era una di loro. Si sentiva sola al mondo. Lui la strinse più forte e le promise che non sarebbe più stata sola. La sua voce era bassa e calda. Sembrava venire da lontano nello spazio e nel tempo. La rassicurò. Prima di salutarsi lei cantò per lui e gli raccontò una storia. Lui le posò un bacio sulla fronte, fresco, lieve e gentile.

Per tutta l’estate, le loro giornate finirono così, abbracciati sulla panchina, ad ascoltare il silenzio, a far parlare il bosco e le sue voci, a canticchiare, leggere libri o poesie, a chiacchierare. A rievocare un passato lontano, avvolto nel mistero, prima che lui fosse solo e vagabondo, prima che lei avesse ricevuto in dote una grande chiocciola. Presero a narrarsi il presente. A sognare il futuro. Da quel momento, al villaggio, le voci si concentrarono su di loro. Su quella strana coppia. Cosa univa due esseri così diversi? Forse un incantesimo. O la magia. La gente non accettava un modo di vivere così distante da quello di tutti gli altri. Non capiva perché amassero tanto la solitudine. Perché non si vedessero mai al villaggio, nemmeno nelle serate di festa e di ballo. Il mistero, nel quale sembravano avvolti, destava sospetti e paure.

Le chiacchiere non rimasero circoscritte al villaggio. Passarono di bocca in bocca, di villaggio in villaggio e arrivarono lontano. E da lontano, seguendo a ritroso quelle voci, un brutto giorno arrivò lei. Aveva i capelli corvini, lunghi e folti che le ricadevano su un volto dai lineamenti duri e impenetrabili. I suoi occhi erano neri, come la notte, e il suo sguardo gelido, come il vento del Nord che annuncia l’inverno. Lei la sentì arrivare e capì che doveva agire in fretta. Il guardiano del bosco fu percorso da un brivido, che gli spense lo sguardo e gli ricacciò in fondo alla gola ogni parola. Achatina corse a cercarlo. Lui aveva già preso la sua decisione. Sarebbe andato via, lontano. Lo prese per mano. Lo condusse alla conchiglia.

Gli disse che la maledizione poteva essere spezzata, lo pregò di fidarsi di lei. Dovevano entrare insieme nella chiocciola, ripercorrere all’indietro tutte le circonvoluzioni che gli anni e le ere passate avevano creato, arrivare fino al cento. Lì avrebbero incontrato la Strega che li perseguitava e gridando con voce unanime la parola “Amore” avrebbero spezzato l’incantesimo. Lui non ci credette. Negli occhi aveva solo dolore e paura. Paura che la conchiglia non fosse grande per tutti e due. Che la potesse rompere, con il suo corpaccione, e distruggere per sempre la speranza nel futuro. Paura che la Strega li trovasse insieme e la uccidesse. Dolore di perderla di nuovo, ora che l’aveva ritrovata.Si staccò da lei, afferrò lo zaino, prese la via del bosco e andò via, senza voltarsi indietro. Lei rimase lì, a spiare attonita il sentiero che l’aveva inghiottito. Attese tutta la notte che facesse ritorno, ma, sul far dell’alba, seppe di non avere più tempo.

La Strega ormai era vicina. Achatina trascinò la conchiglia fino alla cascata, si tolse gli abiti e nuda si infilò al suo interno. Sigillò con cura l’apertura. Con un colpo di reni la spinse nella cascata. E si abbandonò al sonno. Un sonno lungo come un viaggio. Sarebbero trascorsi anni, forse secoli, prima che potesse svegliarsi. Allora la sua chiocciola sarebbe stata più grande. Forse abbastanza perché ci potessero entrare insieme. Quel lungo oblio, fatto di sonno senza sogni, l’avrebbe portata in altri luoghi e in altri tempi. In un altro mondo dove lui, ancora una volta, sarebbe tornato a cercarla. Pioveva a dirotto, quella mattina, quando la donna dai capelli corvini e gli occhi neri come la notte attraversò la radura, oltre il cedro, e bussò alla casetta del custode del bosco. Non trovò nessuno. Lui era già lontano. La rabbia della Strega si scatenò in un grido acuto e distruttivo. Del villaggio non rimasero che pochi muri diroccati, come le rovine del castello nel mezzo del bosco.



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