C’era una volta un ragazzo di nome Sigfrido, che viveva in un villaggio non lontano dalla foresta.
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Da quando i suoi genitori erano morti, gli zii avevano accolto lui e i suoi due fratellini. La loro casa era bassa, fredda e spoglia, e ogni cosa sembrava sempre mancare.
Sigfrido aveva tredici anni. Per questo lo zio gli affidava i lavori più pesanti: zappare la terra dura come un sasso, trasportare legna umida, aiutarlo nei campi dall’alba al tramonto.
O, almeno, ci provava. Perché Sigfrido non era un ragazzo docile. Preferiva di gran lunga sedersi su un ceppo a suonare il suo zufolo, lasciando che i fratellini gli ballassero intorno, oppure spariva per ore lungo le strade del villaggio.
A volte tornava con una mela nascosta sotto la camicia, altre con una patata infilata in tasca, che divideva con i fratelli, suscitando le imprecazioni dello zio, che lo chiamava senza tanti complimenti:
— Disgrazia piovuta dal cielo.
La domenica il ragazzo si sedeva sui gradini della piccola chiesa, con il cappello tra le mani, e chiedeva l’elemosina a chi entrava per la Messa.
Qualcuno gli dava una moneta. Qualcun altro distoglieva lo sguardo.
E lui imparava, senza saperlo, a osservare il mondo.
Un giorno un vecchio viandante venne a bussare alla porta.
Aveva un aspetto povero e fragile. Camminava ricurvo, appoggiandosi a un bastone storto; non aveva un occhio e indossava un mantello tutto rattoppato, che aveva visto giorni migliori. Disse che aveva camminato tanto ed era stanco. Chiedeva un pezzo di pane e un piatto di minestra per rinfrancarsi.
Gli zii, pur brontolando, lo fecero entrare. Gli diedero una scodella di zuppa ormai fredda e un pezzo di pane secco.
Come sempre, cominciarono a lamentarsi: della fame, della terra avara, di un’estate cattiva che prometteva miseri raccolti. Dicevano che la vita, soprattutto negli ultimi tempi, era diventata più dura per loro che per chiunque altro nel villaggio.
Il vecchio ascoltava in silenzio. Poi chiese:
— Da quando le cose sono peggiorate così tanto?
Lo zio indicò Sigfrido senza abbassare la voce.
— Da quando è arrivato quello là.
Il ragazzo, seduto accanto al focolare spento, continuò a suonare il suo zufolo, incurante. I fratellini ridevano e ballavano attorno a lui.
Il vecchio girò lentamente la testa.
— Allora — disse — è possibile che il ragazzo porti con sé una cattiva sorte.
Nella stanza calò improvvisamente il silenzio.
— Se volete — aggiunse — posso prenderlo con me. Ho bisogno di aiuto, e la sventura non mi ha mai spaventato.
Sigfrido si alzò di scatto.
— Lavorerò — disse allo zio — posso esservi molto utile.
Ma l’uomo, che già non lo tollerava e temeva la sfortuna più di ogni altra cosa, accettò la proposta senza esitare.
Il vecchio posò una mano sulla spalla del giovane.
— Con me starai bene — gli disse.
E in quel momento, senza che nessuno lo dicesse ad alta voce, il destino del ragazzo fu deciso.
La zia non perse tempo. Prese una bisaccia e vi infilò le sue povere cose, più un pezzo di pane avvolto in uno straccio. Nient’altro.
Sigfrido capì subito.
— No — disse, e la parola gli uscì strozzata — non voglio andare.
Cercò lo sguardo della donna, poi quello dello zio, ma nessuno dei due ricambiò.
I fratellini avevano smesso di giocare. Il più piccolo lo afferrò alle ginocchia, l’altro gli si strinse alla vita.
— Portaci con te — singhiozzavano — non andare via.
Sigfrido si inginocchiò, li abbracciò forte. Piangeva senza vergogna, con il viso nascosto nei loro capelli.
— Tornerò — disse, anche se non sapeva se sarebbe mai accaduto — ve lo prometto.
Lo zio batté un pugno sul tavolo.
— Basta così!
Il vecchio osservava la scena in silenzio, appoggiato al bastone. Quando parlò, la sua voce fu calma, quasi gentile.
— È ora.
La zia spinse il sacco nelle mani del giovane. I fratellini furono staccati da lui uno alla volta, mentre si dimenavano e piangevano.
Il ragazzo si voltò un’ultima volta.
Poi la porta si chiuse alle sue spalle.
Fu così che Sigfrido lasciò la casa degli zii e seguì lo sconosciuto, che si appoggiò al suo braccio, senza sapere dove stava andando.
Il vecchio lo condusse nel cuore della foresta, lungo un sentiero impervio che non sembrava portare da nessuna parte. Camminarono fino al calare del buio, finché la terra si aprì davanti a loro in una fenditura tra le rocce.
— Io vivo qui — disse.
Non era una casa, ma una grotta. L’aria all’interno era pesante, carica di un’umidità che toglieva il respiro e faceva aderire la camicia come una seconda pelle.
Sigfrido dormì poco quella notte. Gli insetti non gli davano tregua, ronzando nel buio e tormentandolo con morsi che pizzicavano. Da lontano, l’ululato dei lupi gli metteva i brividi, ma era soprattutto il calore a non dargli pace: ogni pietra del pavimento sembrava aver accumulato il fuoco del sole durante il giorno, restituendolo ora in un riverbero soffocante.
Continuava a rigirarsi, pensando ai fratellini e a quanto avrebbe dato per un soffio di vento.
A un certo punto sentì un fruscio. Il vecchio si avvicinò e gli posò addosso un mantello simile al suo, malconcio e rattoppato. Sigfrido stava per scostarlo, temendo che quel peso lo facesse soffocare del tutto, ma appena la stoffa toccò il suo corpo accadde l’incredibile.
Una strana sensazione di freschezza, simile a quella di un ruscello di montagna, lo avvolse dalla testa ai piedi. Era come se il mantello respirasse: il sudore si asciugò all’istante, gli insetti si allontanarono come respinti da un’aura invisibile e l’aria attorno a lui divenne leggera e frizzante. Il pavimento di pietra non gli parve più così duro, ma fresco come muschio all’ombra.
Sigfrido si strinse in quel sollievo inaspettato e, finalmente, si addormentò.
Al mattino l’uomo lo scosse con il bastone.
— Se vuoi mangiare, dovrai procurarti il cibo — disse — per te e per me.
Il ragazzo lo guardò incredulo.
— Non mi aiuterete?
Il vecchio sorrise appena.
— Io guardo. Tu fai.
Gli mise in mano un cestino di vimini e lo mandò nel bosco, indicandogli il sentiero da seguire.
Sigfrido, a un certo punto, arrivò in una radura che sembrava incantata. I cespugli di mirtilli rossi erano carichi, tanto da piegarsi sotto il peso dei frutti. Il ragazzo, meravigliato di tanta abbondanza, si mise al lavoro con lena, riempiendo il cestino.
Sopra di lui, su un ramo di pino, un corvo enorme e nerissimo lo osservava con la testa inclinata. Non gracchiava. Aspettava.
Ogni volta che il giovane si spostava di qualche passo per raggiungere un nuovo cespuglio, sentiva un fruscio d’ali. Quando tornava al cestino per aggiungere altri mirtilli, lo trovava sempre a metà.
All’inizio pensò di aver contato male. Poi capì.
Il corvo scendeva in picchiata silenziosa e, con una velocità incredibile, rubava i grappoli più belli.
Sigfrido provò a colpirlo, ma l’uccello schivava ogni pietra con facilità. Provò allora a coprire il cestino con il mantello donatogli dal vecchio, ma il corvo riusciva a infilarsi sotto con il becco.
Alla fine il ragazzo si fermò. E osservò.
Notò che l’animale non mangiava le bacche. Volteggiava verso una sporgenza rocciosa che sovrastava la radura e vi depositava il bottino. Non cercava cibo: cercava il rosso, il colore più brillante della foresta.
Sigfrido frugò nelle tasche. Trovò il suo piccolo zufolo e un nastrino di quel colore, con cui sua madre soleva legarsi i capelli e che il ragazzo aveva tenuto come ricordo.
Lo avvolse attorno allo strumento. Ora sembrava un frutto gigantesco, innaturalmente luminoso sotto il sole.
Lo posò bene in vista su un ceppo isolato al centro della radura, poi si allontanò fischiettando, come se nulla fosse.
Il corvo non resistette. Abbandonò la sua postazione di guardia e si lanciò in picchiata per afferrarlo.
L’oggetto, però, gli scivolava dal becco. Il nastro sventolava, il legno ruotava, e ogni tentativo lo costringeva a posarsi. Mentre l’uccello lottava per non perdere il suo tesoro, Sigfrido si diresse a rotta di collo verso la sporgenza rocciosa. Lì trovò non solo i suoi mirtilli, ma una vera montagna di frutti accumulati nei giorni precedenti.
Stese il mantello, vi rovesciò sopra tutto quel che poté e scivolò via, diretto verso la grotta.
Quando il corvo riuscì finalmente a trascinare lo zufolo oltre la sporgenza, Sigfrido era già lontano.
Il ragazzo rincasò portando il mantello trasformato in una grande sacca ricolma.
Il vecchio non disse nulla all’inizio. Affondò le dita nodose tra i frutti lucidi e ne portò uno alla bocca.
— Hai rubato al ladro — mormorò con una nota di divertimento nella voce.
— Ho solo scambiato un desiderio con una necessità — rispose Sigfrido — lui voleva la bellezza che brilla, io volevo la bellezza che nutre.
L’uomo sorrise.
— Bravo, figliolo, e ricorda: l’avidità degli altri è la corda più robusta per legarli.
I mesi passavano. Poi l’inverno arrivò, duro e improvviso.
Una notte il freddo si fece così affilato da sembrare una lama. Sigfrido si svegliò con i brividi che gli scuotevano le ossa, nonostante fosse avvolto nel mantello donatogli dal vecchio. Quella stoffa, che fino ad allora lo aveva protetto come un caldo abbraccio, sembrava essersi fatta improvvisamente sottile come un velo: il gelo la attraversava, insinuandosi nel suo corpo come acqua fredda tra le dita.
Ogni suo respiro si cristallizzava nell’aria, uscendo dalla bocca in nuvole di vapore bianco che svanivano nel buio. Poco distante, nell’imboccatura della grotta, il focolare era ridotto a un occhio rosso e morente. Sigfrido si trascinò verso le braci, gettandovi piccoli rami secchi, ma la fiamma non voleva saperne di nascere: il gelo era così denso che sembrava soffocare ogni scintilla prima ancora che potesse mordere il legno.
Poco più in là, nell’ombra, anche il vecchio era sveglio. Sedeva rigido sotto il suo mantello, col cappuccio calato a nascondere lo sguardo, intento a sfregarsi le mani ossute. Il suono della pelle secca che faceva attrito era l’unico rumore nel silenzio di quella notte gelida.
— Ragazzo — disse, fissando Sigfrido — senza fuoco il gelo della notte ci ucciderà.
— Ma fa troppo freddo — rispose il giovane — anche se riuscissimo ad accenderlo, non durerebbe.
L’uomo andò zoppicando verso l’apertura della grotta e fece un cenno con il capo verso una direzione precisa della foresta. Sigfrido seguì il suo sguardo e vide delle volute di fumo levarsi tra gli alberi.
— Laggiù c’è un accampamento — disse, e una luce inquieta gli attraversò l’unico occhio — un grande falò arde al centro, custodito da uomini grossi e cani feroci. È un fuoco magico, la cui fiamma non si spegne mai. Prendi una delle loro braci. È l’unico modo.
Sigfrido deglutì. Uomini grossi e cani feroci? Il freddo mordeva, ma il pensiero di quel che avrebbe dovuto affrontare lo faceva tremare ancora di più. Tuttavia sapeva di non avere scelta. Si strinse il mantello addosso e si incamminò verso il fumo.
Quando giunse a destinazione, avanzò strisciando tra la neve. Il cuore gli batteva forte. Nel muoversi, schiacciò un ramo secco, che si spezzò con un secco crack.
Uno dei cani mugugnò.
Sigfrido, preso dal panico, afferrò un rametto da terra e lo allungò tremante verso il fuoco per prenderne una brace. Una scintilla gli schizzò sulla mano. Urlò.
— Ehi! — gridò qualcuno.
Un cane ringhiò. Un altro cominciò ad abbaiare. Le catene tintinnarono.
Il ragazzo si voltò e scappò più veloce che poteva.
— Ladro! — urlò un omone dalla voce tonante.
Vennero sciolti i cani, che partirono all’inseguimento abbaiando furiosi. Sigfrido inciampò, si rialzò, sentì il fiato caldo degli animali alle spalle. Riuscì ad arrampicarsi su un albero basso e nodoso. Le bestie gli girarono sotto, ringhiando, finché non furono richiamate indietro.
Il giovane rimase lì a lungo, con la mano che bruciava e il cuore che martellava.
Quando tornò alla grotta, non aveva nulla con sé. Solo freddo e dolore.
Il vecchio lo fissò a lungo.
— Hai preso la brace? — chiese, infine.
— Ho fatto rumore — rispose Sigfrido, allargando le braccia — mi dispiace…
L’uomo gli disse, guardandolo dolcemente:
— Se non riuscirai nell’impresa, stanotte moriremo.
Il ragazzo non rispose, ma sul suo viso era evidente la tensione.
Il vecchio, allora, si alzò, frugò tra i suoi stracci e gli porse due oggetti: una ciotola di ferro con un coperchio forato e due pietre piatte legate da bastoncini d’osso.
— Il fuoco non si prende con il legno — spiegò — il legno è il suo cibo. Il fuoco si trasporta nel metallo, che lo imprigiona senza bruciare. E ricorda: non ti hanno sentito perché hai fatto rumore, ma perché avevi paura.
Sigfrido annuì debolmente.
Si rimise dunque in cammino e raggiunse l’accampamento che era ancora buio.
Gli omoni russavano fragorosamente. I cani dormivano accucciati. Il ragazzo si mosse seguendo il ritmo del loro respiro. Quando espiravano, avanzava. Quando il silenzio tornava, diventava immobile come un tronco gelato.
Arrivato vicino al fuoco, si inginocchiò. Usò le pietre come se fossero pinze. Raccolse una sola brace, piccola ma viva, e la chiuse nella ciotola. Poi la coprì con uno strato di cenere fredda.
Mentre si allontanava, un cane sollevò la testa. Ma Sigfrido era così calmo che il suo passo si confuse con il lento scorrere delle ombre sulla neve. L’animale tornò a dormire.
A un tratto scivolò. La ciotola gli cadde di mano e la brace quasi si spense. Il ragazzo non ci pensò due volte. Afferrò quel pezzetto con le dita nude. Sentì una fitta bruciante, ma non emise un fiato, rimanendo muto come la pietra.
Quando arrivò alla grotta, era esausto. Le dita ustionate, il volto pallido.
Posò la brace su un letto di muschio secco e rami sottili. Soffiò piano, con l’ultimo fiato che gli restava nei polmoni.
La fiamma nacque: una piccola lingua dorata che mangiò il buio e scacciò il gelo dalle pareti.
Il vecchio si scaldò soddisfatto le mani nodose:
— Hai preso il fuoco ai giganti della foresta senza svegliare i loro cani — mormorò con rispetto — e hai capito che il dolore non grida, se il cuore è saldo. Ora sai che la paura fa più rumore dei rami che si spezzano sotto i nostri passi.
Sigfrido non rispose. Si sdraiò accanto al fuoco, sentendo il calore che, piano piano, lo avvolgeva. Prima di addormentarsi, guardò la sua mano ferita: non era più il segno di una sconfitta, ma la prova del suo coraggio.
La primavera arrivò con un boato.
Il ghiaccio si spezzava nei fiumi, l’acqua correva torbida e violenta, e la terra sembrava risvegliarsi di colpo dopo un lungo sonno. Il vecchio appariva debole. Era sempre più curvo, emaciato, e respirava a fatica.
— Il sangue della terra ha ripreso a scorrere — disse a Sigfrido — ma è torbido di fango. Io… io non mi sento bene, figliolo. Ho bisogno che tu mi porti l’acqua della Sorgente Alta, dove il ghiaccio si scioglie per ultimo. O non sopravvivrò a lungo.
Poi aggiunse, sommessamente:
— Fa’ attenzione. Il fiume si è svegliato, e con lui il suo guardiano. Ricorda: chi sale sul cavallo del fiume non scende più.
Il giovane partì all’alba.
Raggiunse il torrente a metà mattina. L’acqua era un tumulto di schiuma e blocchi di ghiaccio che si scontravano con fragore. La corrente era troppo larga per essere saltata e troppo violenta per essere attraversata a nuoto.
Sulla riva opposta vide un cavallo.
Era grande e bianco, con il manto lucido come la schiuma dell’acqua. I suoi occhi sembravano perle pescate dal fondo di un lago.
La bestia nitrì piano e avanzò verso di lui, fermandosi proprio al margine del fiume. Allungò il collo in modo innaturale, come per farsi accarezzare, e piegò la testa in un invito silenzioso.
Sigfrido sentì un brivido corrergli lungo la schiena.
Ricordò le parole del vecchio. Se gli fosse salito in groppa, la sua pelle si sarebbe attaccata al pelo della creatura, e il cavallo lo avrebbe trascinato nel punto più profondo del fiume, dove sarebbe annegato.
Osservò meglio.
Notò che l’animale non poggiava mai gli zoccoli sulla terra asciutta. Rimaneva sempre dove l’erba era fradicia, dove l’acqua filtrava dal suolo. E continuava ad avvicinare il muso, insistente.
Il giovane, allora, capì.
Si tolse il mantello magico e lo usò per raccogliere pietre pesanti e rami bagnati. Quando il mantello fu colmo, lo afferrò con forza e lo scagliò con un colpo preciso sulla groppa del cavallo.
Appena la stoffa sfiorò il pelo bianco della bestia, si fuse con esso come se fosse stata incollata con la pece. Il cavallo, sentendo il peso, pensò di aver finalmente catturato la sua preda e si lanciò nel gorgo con un nitrito di trionfo.
Ma il peso lo affaticava. Il suo corpo enorme cominciò a lottare sott’acqua.
La corrente rallentò.
Sigfrido non esitò. Corse sul letto del fiume quasi scoperto, saltando tra le pietre scivolose con l’agilità di un cerbiatto. Raggiunse la sorgente, riempì la borraccia d’acqua limpida e tornò indietro mentre il fiume premeva, pronto a esplodere di nuovo.
Quando il cavallo riuscì a liberarsi, Sigfrido era già sulla riva, in salvo.
Tornò alla grotta fradicio, con i vestiti appiccicati addosso e la borraccia in mano.
Il vecchio gli andò incontro appoggiandosi al bastone. Prese la borraccia, la sollevò contro la luce e osservò l’acqua limpida che brillava all’interno; la portò alla bocca e bevve. Poi, osservando il ragazzo, gli chiese:
— Sei salito in groppa al cavallo?
— Certo che no — rispose Sigfrido. E gli raccontò tutta la sua avventura.
Alla fine il vecchio sorrise.
— Bravo, figliolo.
Poi il suo sguardo si fece inquieto:
— Dov’è il mantello che ti ho dato? — domandò con voce dura — Era un dono degli antichi, Sigfrido. Ti rendeva invisibile al gelo e al caldo. Era prezioso.
Il giovane lo guardò dritto nell’unico occhio, senza abbassare la testa.
— Il mantello mi scaldava il corpo, ma il pensiero di lasciarvi morire mi gelava l’anima. Ho scelto di restare nudo pur di portare l’acqua.
L’uomo rimase immobile, il bastone piantato nella terra umida. Poi un sorriso profondo gli solcò il viso.
— Generoso — disse infine — la primavera insegna che tutto ciò che si scioglie deve scorrere. Ma solo chi sa rinunciare a ciò che possiede può bere l’acqua più pura.
Si voltò verso il bosco, come se ascoltasse una voce lontana.
— Sei cresciuto molto in questi mesi — aggiunse — presto sarai pronto per affrontare la prova più grande.
Sigfrido non replicò e non chiese spiegazioni.
L’autunno bussò alla porta. Le foglie cadevano senza rumore, e il terreno era ricoperto da uno spesso tappeto color ruggine.
Era passato più di un anno da quando Sigfrido aveva lasciato la casa degli zii e i suoi fratellini per seguire il vecchio nella foresta.
Una mattina, mentre il vento faceva girare le foglie in piccoli vortici, l’uomo disse ad alta voce, come se pensasse tra sé:
— Il momento è arrivato.
Sigfrido, abituato alle sue frasi oscure, alzò lo sguardo.
— Quale momento?
Il vecchio lo osservò con uno sguardo penetrante.
— Se riuscirai in ciò che ti chiederò — disse infine — potrai tornare dai tuoi fratellini. Con il dono più prezioso di tutti.
Il giovane non credeva alle proprie orecchie.
— Vicino a un grande frassino dorme un lupo — riprese — è enorme, ha una cicatrice sul muso e un udito così fine da riuscire a sentire una foglia che cade a mille miglia di distanza. Inoltre, il suo olfatto riconosce la paura prima ancora del corpo che la prova.
Fece una pausa.
— Tra le sue zampe c’è una pietra di grande valore. Se riuscirai a prenderla senza svegliarlo, sarai libero. Se fallirai… oggi sarà il tuo ultimo giorno.
Sigfrido deglutì.
— Dovrai usare tutto ciò che hai imparato — concluse il vecchio — astuzia, controllo, logica.
Si avvicinò di un passo.
— Non tentare di sfidarlo né di fuggire. Contro di lui la forza è muta e la velocità è cieca. Se si sveglia, non esiste arma al mondo che possa salvarti.
Poi si ritrasse.
— Vai, e porta con te solo ciò che serve. Io aspetterò qui.
Sigfrido prese la sua bisaccia. Dentro vi era un piccolo scopettino da focolare, con il manico di nocciolo levigato dall’uso e le setole di crine di cavallo, morbide e scure. Era appartenuto a sua madre. Con quello aveva spazzato la cenere per anni, senza mai fare rumore.
Poi raccolse muschio umido e foglie marce dalle radici degli alberi e se ne strofinò il corpo, finché il suo odore umano fu sepolto sotto quello della terra autunnale.
Infine, sulle rive del ruscello, trovò una grossa pietra liscia, simile per peso e forma a quella che avrebbe dovuto prendere, e la legò alla cintura.
Così preparato, si avviò.
Il lupo dormiva tra le radici contorte del frassino, dove le pietre affiorano e il bosco sembra trattenere il respiro.
Era una montagna di pelo grigio. Le zanne, simili a lame di ghiaccio, spuntavano tra le fauci socchiuse, e una profonda cicatrice gli solcava il muso.
Attorno a lui, un tappeto di foglie secche e vecchie ossa rendevano il luogo ancora più inquietante.
Sigfrido provò un terrore antico, profondo, ma si dominò. Si mise carponi.
Con lo scopettino il ragazzo spostò le foglie secche delicatamente, lasciando affiorare la terra umida.
Avanzava lentamente, centimetro dopo centimetro. Ogni foglia evitata era una vittoria.
A un certo punto il lupo ringhiò nel sonno e cambiò posizione.
Sigfrido si immobilizzò.
In quel momento capì che non bastava essere silenzioso. Doveva essere ritmico. Si mosse seguendo il respiro della bestia, come una foglia che cade insieme al vento.
Quando fu a un palmo dal muso del lupo, il suo cuore batteva lento, come se avesse imparato a obbedire.
Tra le zampe vide la pietra: opaca, ma con una luce nascosta al suo interno, come un sole prigioniero.
Con la mano ferma di chi aveva domato il fuoco, Sigfrido la sfiorò, la sollevò…
e la sostituì con la pietra liscia che portava alla cintura.
Il pensiero dei fratellini gli diede la forza di non tremare.
Poi si allontanò, senza mai voltare le spalle alla bestia, svanendo nella nebbia come un’ombra.
Quando tornò, il vecchio era diventato irriconoscibile.
Il bastone giaceva a terra, inutile. Il mantello, ora, era più scuro e maestoso, come il cielo carico prima della tempesta. L’uomo non appariva più curvo: stava eretto, possente, immobile, e sembrava occupare tutto lo spazio intorno a sé.
Il suo sguardo aveva la profondità dei boschi antichi, quelli che esistevano prima dei villaggi e degli uomini.
Sigfrido, un po’ intimorito, gli porse la pietra. Lui la prese tra le mani.
— Hai camminato nelle fauci del terrore senza fuggire e senza sfidarlo — disse, con voce solenne — ora puoi tornare a casa. Non hai più bisogno di me.
Il giovane aprì la bocca per ringraziarlo, ma davanti a lui non c’era più nessuno.
Sigfrido, nella grotta, era solo.
Quella notte dormì profondamente di un sonno ristoratore.
All’alba la foresta era silenziosa. Si udiva solo il canto degli uccelli.
Quando il ragazzo aprì gli occhi, si trovò di fronte a uno spettacolo a cui non era pronto.
Dove prima c’era solo roccia e terra nuda, ora brillavano monete d’oro e d’argento, ammassate come foglie d’autunno. C’erano coperte calde, pane, formaggi e un vestito nuovo, semplice ma elegante, come quello di un giovane signore di campagna. In un cantuccio della grotta giacevano tre sacchi di iuta, vuoti. Davanti alla grotta, un bellissimo destriero già sellato lo attendeva.
Sigfrido pianse dalla gioia.
Si vestì, raccolse ogni cosa nei sacchi — che contennero tutto — li assicurò alla sella dell’animale e cavalcò fino al villaggio.
La casa degli zii gli apparve esattamente come l’aveva lasciata: bassa, spoglia, inospitale.
Sull’uscio stavano i suoi fratellini. Erano più magri di come li ricordava, sporchi, con gli abiti troppo corti.
Sigfrido sentì la rabbia salire come una fiamma, ma la ricacciò indietro. Respirò. E bussò.
La porta si socchiuse. Comparve il volto della zia, scavato e bruciato dal sole.
— Cerco un posto dove dormire per una notte — disse Sigfrido con calma — sono disposto a pagare.
La donna lo squadrò, incredula. Poi spalancò l’uscio.
— Entrate, messere.
Sigfrido si sedette al tavolaccio della cucina e vi posò sopra due monete d’oro. La zia ne prese una, la morse. I suoi occhi si illuminarono.
— Vino! — esclamò all’improvviso, diventando tutta sorrisi — subito!
Poi si affacciò alla finestra.
— Vieni dentro! — gridò — presto!
Lo zio arrivò di corsa dall’orto e si fermò sulla soglia, esclamando:
— Che succede?
Quando vide l’oro, capì. Anche il suo volto si fece morbido, untuoso. Entrambi si prodigarono in inchini e parole gentili. Nessuno dei due riconobbe Sigfrido.
— Quei bambini là fuori — disse lui a un certo punto, con voce tranquilla — sono vostri?
I due si scambiarono uno sguardo.
— Figli di una parente. Morta all’improvviso. Poveri orfani — rispose lo zio, scuotendo la testa con aria mesta e fintamente contrita.
Sigfrido sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi.
— Avete dato via vostro nipote a un vecchio sconosciuto — disse — e senza esitazione. Avete lasciato questi bambini nella fame e nella sporcizia. E ora vi fingete anche dispiaciuti?
Nella stanza calò il silenzio.
— Sono Sigfrido, zio.
La zia impallidì. L’uomo aprì la bocca, la richiuse.
— Possiamo… possiamo ricominciare — balbettò infine — ora che sei tornato…
Il giovane scosse il capo.
— No.
Si alzò, posò un’altra moneta d’oro sul tavolo.
— Per il disturbo.
Poi si voltò verso l’uscio e cominciò a canticchiare una melodia lieve, la stessa che suonava un tempo con lo zufolo.
I bambini si voltarono di scatto.
— Sigfrido!
Gli corsero incontro. Lui li sollevò e li strinse a sé senza dire una parola.
Li fece salire sul cavallo, montò sulla sella e si allontanarono, sollevando una nube di polvere. Il bambino più piccolo, che lo teneva stretto con le braccine, gli chiese:
— Dove andiamo?
Sigfrido guardò l’orizzonte, dove il sole d’autunno scaldava ancora le cime degli alberi.
— Andiamo a costruire una casa dove le foglie non fanno rumore e il fuoco non si spegne mai — rispose sorridendo.
Poi spronò il cavallo e la loro ombra si allungò sulla strada.
Un’unica ombra, che nessuna sventura avrebbe mai più potuto dividere.
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