La bambina del futuro
In una strada molto affollata un distinto signore è intento a fare un prelievo al bancomat. All’improvviso sbuca da dietro le spalle un rapinatore. Che gli rifila una coltellata ai fianchi e gli sottrae i… La bambina del futuro
In una strada molto affollata un distinto signore è intento a fare un prelievo al bancomat. All’improvviso sbuca da dietro le spalle un rapinatore. Che gli rifila una coltellata ai fianchi e gli sottrae i… La bambina del futuro
Il sole se n’era andato di colpo, il vento aveva raccolto in un attimo sulla montagna nuvole nere gonfie di pioggia, e subito aveva cominciato a tuonare e lampeggiare. Poi, si era scatenato l’iradiddio. La luce livida delle saette squarciava il cielo in un susseguirsi di guizzi che sembravano non avere fine.
Piccolo Uomo, raggomitolato vicino alla parete della capanna, si teneva le orecchie tappate, la faccia e gli occhi nascosti nelle ginocchia: non ricordava di avere mai avuto tanta paura.
Grande Vecchio, abbandonato sulla poltrona, fumava la pipa e lo osservava con un sorriso di tenerezza.
Il mare, quell’anno, non era stato buono: la barca con la quale ogni mattina all’alba il Povero Pescatore partiva per la pesca era stata buttata sullo scoglio all’entrata del piccolo porto durante una tempesta. Ed era andata distrutta. L’uomo si era salvato miracolosamente. Ma la sua famigliola temeva la fame dell’inverno.
Così, si era deciso, anche per le insistenze della moglie. Ed era andato in città per affidarsi alla magnanimità dell’Onorevole Grande Samurai, la cui fama di saggezza e generosità valicava i confini del Paese.
L’Onorevole Grande Samurai aveva ascoltato in silenzio il triste racconto e si era impietosito per la sorte dei tre piccoli e della moglie, che non avevano di che mangiare. Alla fine aveva concesso al Povero Pescatore un prestito. Il Grande Samurai però lo aveva avvertito: «Tra un anno, quando sbocceranno i fiori della primavera e l’aria sarà dolce di profumi, ti aspetterò nel salone del mio palazzo e mi riporterai il dovuto. Non voglio speculare: mi basta quanto ti ho dato, nessun soldo in più. Solo ti ricordo: per me gli impegni sono sacri. Non tollererò ritardi. Voglio la tua parola».
Il Povero Pescatore, commosso, si era inchinato e gli aveva dato la sua parola. Poi aveva ringraziato, benedicendolo per la sua bontà.
Un giovane manager, durante una crociera, naufraga su un’isola in mezzo all’oceano. E’ l’unico sopravvissuto: tutti i suoi amici annegano nel tentativo di sfuggire alle onde. Lui si salva fortunosamente perché riesce a restare aggrappato ad un pezzo di canotto, che dopo quasi una settimana, portato dalla corrente, si ferma sulla riva di un’isola, molto piccola e completamente disabitata.
Da oltre tre mesi si ciba di banane e cocco.
Una mattina, mentre è disteso sulla spiaggia, stanco e disperato, vede avvicinarsi una canoa.
La canoa approda e ne scende una ragazza: bionda, slanciata.
Bellissima.
Sole cocente. Vento caldo che secca la gola.
Un cowboy cavalca tutto solo nel deserto.
Ha sete. Molta sete.
Finalmente, quattro case all’orizzonte e, naturalmente, un saloon.
Il cowboy si ferma di fronte al saloon: lega il cavallo, smonta, entra.
Va al bancone e ordina da bere. In silenzio, ingolla due wisky. Poi altri due. Quindi, sempre senza profferire parola, asciugandosi la bocca con il braccio, butta un dollaro sul bancone.
Poi esce per riprendere il viaggio.
Ma il cavallo è sparito: al suo posto solo la corda, attaccata al palo.
Il cowboy rientra nel saloon: si ferma sulla porta, gambe divaricate e mano sul calcio della pistola.
L’Elefante procedeva tranquillo al suo passo: tra poco sarebbe arrivato al Grande Lago e avrebbe potuto finalmente ristorarsi, immergendosi nelle acque fresche.
Il sole bruciava e l’aria era ferma.
Il silenzio venne rotto da un rumore di fondo: sordo, crescente.
L’Elefante si fermò e lentamente si girò in direzione del rumore. Si vedeva polvere. E una nuvola di fumo che saliva al cielo. Poi, all’improvviso, comparve nitida la colonna di animali. Gazzelle, leoni, tigri, pantere, zebre, giraffe. E poi babbuini, iene, sciacalli. Tutti. Correvano. Anzi, fuggivano.
Era la Festa di Metà Estate, nel piccolo villaggio a mezza costa sotto la Montagna Più Alta del Mondo.
Grande Vecchio e Piccolo Uomo avevano lasciato la vetta di buon mattino e avevano raggiunto le prime case poco dopo mezzogiorno, attraverso il sentiero che si snodava a serpentello per boschi e radure.
Il pomeriggio sarebbero cominciati i canti e le danze, con giovani e vecchi che per l’occasione avevano indossato i costumi della tradizione. E la festa sarebbe durata tutta la notte. Piccolo Uomo aspettava con trepidazione di assistere allo spettacolo: quest’anno, poi, sarebbe arrivato anche un gruppo di saltimbanchi, la cui fama si tramandava di valle in valle.
Piccolo Uomo e Grande Vecchio avevano passato il pomeriggio a far legna nel bosco, su tra le alte montagne. Ormai le ombre della sera si allungavano: l’aria si era infreddolita e il sentiero aspettava per il rientro. Bisognava caricare i tronchi sul carro.
Piccolo Uomo era contento: aveva maneggiato la sega e la scure come Grande Vecchio, senza risparmiarsi. Ma la fatica, ora, ce l’aveva tutta stampata in faccia.
Grande Vecchio lo osservava, silenzioso: i suoi occhi sorridevano e facevano trasparire un affetto dolce e morbido come il leggero sole di primavera.
Gridava un bambino
piccino piccino.
«E’ Natale,
non vale,
smettete la guerra:
la Terra
sta male,
soprattutto a Natale.
Se il mitra non tace,
se manca la pace,
perché siamo nati?
Chi corre nei prati?»
Piccolo Uomo sembrava seduto in quella posizione da sempre: fissava, gli occhi persi nel vuoto, il fuoco che crepitava e sfolgorava di faville. La notte era fresca, non fredda, e la fiamma creava tutt’attorno un dolce tepore.
Grande Vecchio, più in disparte, espirava ogni tanto larghe volute di fumo: piccole nuvole che si allargavano lente quasi a nascondere la lunga pipa. Ogni tanto si faceva questo regalo, dopo mangiato e prima del sonno: una fumata di buon tabacco forte, aspro e duro come lo spuntone di una roccia.
Ad un certo punto, Piccolo Uomo ruppe la sua ipnosi.
«E’ male sognare, Grande Vecchio?».
Grande Vecchio manifestò stupore: «Che domanda strana, Piccolo Uomo: forse qualcuno te l’ha fatto credere? ».
E giunse il giorno in cui il vecchio Monaco venne chiamato in cielo.
Ad accoglierlo, sul bordo di un aldilà di un azzurro perfetto, illuminato da un sole che carezzava mollemente i volti, l’Angelo del Paradiso: che si inchinò a lui in segno di saluto e gli sorrise benevolo, facendogli cenno di seguirlo.
«Ti stavamo aspettando», annunciò l’Angelo. «La fama della tua santità è giunta sin quassù e tutti vogliono conoscerti».
Il vecchio Monaco si schermì: «Ho solo cercato di vivere in pace con il cielo e con la terra», rispose, congiungendo le mani e chinando il capo come nell’atto tradizionale della preghiera.
Quindi mosse i primi passi dietro l’Angelo, che stava per imbucarsi in una nuvola bianchissima in cui un cartello indicava appunto ‘Paradiso’.
Ma poi il vecchio Monaco si trattenne, sfiorando con la mano l’ala soffice del suo accompagnatore. «Ti posso chiedere un favore, prima di entrare nella nuvola bianca?».
Cominciavano ad alzarsi le prime luci, e Grande Capo Orso-Lucente era uscito dalla tenda.
Lentamente, aveva abbracciato con lo sguardo l’orizzonte, passandosi una mano sul braccio, e aveva aspirato l’odore dell’aria: diceva pioggia e vento.
«Sì», disse fra sé, «l’inverno è alle porte. E sarà un inverno freddo».
Diede un ordine secco: «Subito 50 indiani a fare legna nel bosco».
Poi, chiamò Penna Bianca, uno dei bambini del campo a cui era più affezionato e del quale più si fidava.