Tobia 27, il cane spaziale

Fiaba pubblicata da: Aleksandra

Su un pianeta, non molto lontano dal nostro, vivevano cani con il pelo bianco e lungo e gli occhi azzurri come il cielo. Erano piccoli, rotondetti e con una coda minuscola simile a quella dei conigli. Visti da lontano sembravano delle palline bianche, uguali a fiocchi di neve. Si chiamavano Tobia ed erano cani spaziali, aiutanti di Babbo Natale. Ciascuno di loro aveva il proprio numero e una missione diversa dall’altro.

Questa è la storia di Tobia 27 e di Marco, un ragazzo terrestre di otto anni.

Quell’anno Tobia 27 ebbe da Babbo Natale il solito compito (cambiavano soltanto i destinatari): doveva verificare di persona la bontà di cuore di un bambino italiano di nome Marco, che viveva in un paesino in Lombardia, vicino al grande lago. A seguito di questa verifica Babbo Natale avrebbe deciso se codesto bambino era degno dei regali richiesti nella lettera. Tutte le volte in cui gli sorgeva un dubbio, Babbo Natale ricorreva al servizio dei cani spaziali, poiché il loro metodo era assai efficace. Da qualche tempo seguiva quel piccolo birbante, con i capelli neri come il carbone e lo sguardo furbo da volpe.

Marco si svegliò di soprassalto quella mattina. Gli era sembrato di sentire un rumore fuori dal cancello di casa, simile a un debole lamento. Si vestì in fretta e furia e scese a controllare. Mancava poco a Natale e quello era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze invernali.

Di notte aveva nevicato tanto e non si vedeva bene cosa ci fosse sotto la neve fresca e spessa. S’inginocchiò davanti al cancello e cominciò a scavare con le mani e alla fine gli apparve davanti un barboncino dal pelo bianco, ma molto sporco. Era pieno di croste, zoppicava e non vedeva bene da un occhio. Era affamato e striminzito dal freddo e quando vide Marco, si mise subito a leccargli la mano e a guaire.

“Mio Dio quanto sei brutto!” disse sorpreso Marco e gli sbatté il cancello davanti al muso.

“Ho sempre desiderato un cane, ma non certo come te. Farò finta di non averti né sentito né visto. Torna da dove sei arrivato, visto che hai un collare, sicuramente hai anche un padrone!” esclamò. E rientrò in casa indifferente a quell’unico occhietto scuro che lo guardava supplicando.

 

Era Tobia 27, che tramite il suo collare speciale già trasmetteva a Babbo Natale l’esito negativo della sua missione.

“Concedigli un’altra opportunità” disse Babbo Natale. “E se anche dopo secondo tentativo il suo cuore non mostrerà pietà, allora considererò il lavoro concluso”.

 

Dopo la colazione Marco prese lo zaino con la merenda, indossò il piumino, gli stivali da neve, il cappello di lana, i guanti, diede un bacio alla mamma e si avviò a piedi verso la scuola, che era a poche centinaia di metri da casa sua. Dalla sua mente aveva già del tutto cancellato l’incontro con quel cagnolino e, mentre dava calci ai cumuli di neve ai bordi della strada, fischiettava allegro e spensierato. Era un ragazzo fatto così. Meno pensava, meglio stava.

Dopo neanche cento metri se lo trovò all’improvviso di nuovo davanti. Sembrava ancora più concio. Il barboncino si stava trascinando su tre zampe con fatica ed evidente dolore. Marco stava per superarlo quando all’improvviso ebbe un’idea: “Ma sì, ti porterò con me a scuola, così ci divertiremo un po’ con te durante l’intervallo! Scommetto che i miei amici non hanno mai visto niente di simile. Quasi quasi potremmo fare a gara a chi trova il cane più brutto”. Se lo mise nel sacchetto in cui teneva le scarpe da ginnastica e poi infilò tutto nello zaino coprendo il contenuto con il diario. “Devi stare zitto, hai capito!? Altrimenti la maestra mi metterà una nota e poi a casa chi li sente i miei genitori! Questo mese ne ho già prese sette.”

Mentre camminava verso la scuola, sentì come una fitta al cuore, ma arrivò giusto in tempo prima che chiudessero la porta principale e si dimenticò anche di questo.

La prima lezione era di matematica, e per giunta c’era anche una verifica. Lui non sopportava la matematica perché gli toccava concentrarsi per risolvere dei problemini, cosa cui non era abituato. Per un po’ la maestra interrogò i soliti secchioni, poi all’improvviso si girò verso di lui.

“Vediamo, vediamo chi interrogheremo adesso…” diceva la maestra, mentre il cuore di Marco batteva a cento.

“Marco Pedetti, alzati e vieni alla lavagna! Ti do tre problemi, cerca di risolverne almeno uno altrimenti, purtroppo, dovrò confermare il tuo voto – insufficiente.

 

Allora vediamo: (quattro più undici) meno sei!

 

                          (sei meno sei) più tre!

 

                          (otto meno quattro) più quattro!”

 

Scandiva la maestra a voce alta scrivendo sulla lavagna.

 

Marco si alzò con le gambe tremanti e si mise a guardare fuori dalla finestra. Aveva ripreso a nevicare e dei grossi fiocchi di neve si stavano incollando al vetro. “Come vorrei essere un fiocco di neve e avere la possibilità di sciogliermi e diventare invisibile in questo momento” pensò tra sé e sé. In quell’istante, mentre si avviava verso la lavagna, gli parve di sentire una vocina provenire dal suo zaino e si rammentò del barboncino che aveva messo dentro.

“Nove, tre, otto…” diceva pianissimo quella vocina. “Nove, tre, otto…”

Arrivato alla lavagna Marco si mise a riflettere e a spremere il proprio cervello come un’arancia. “Hm, nove, tre, otto, non saranno mica i risultati dei problemi, ma con quale ordine?” pensò dentro di sé, e senza pensarci due volte li scrisse, per fortuna, nell’ordine in cui erano stati pronunciati.

La maestra prima sgranò gli occhi, incredula, e poi disse: “Bravo Marco, si vede che hai studiato. Devo ricredermi.  Sette, ti do un bel sette come inizio, cosa dici?”

“Grazie maestra” rispose Marco e si affrettò a ritornare al proprio posto, quasi per paura di non essere costretto a risolvere un altro problema.

Una volta calmato, Marco aprì lo zaino e disse sussurrando: “Sei un vero amico, mi hai salvato dai guai. Adesso mi sento in colpa per averti trascurato e denigrato, scusami”.

In quel preciso istante avverti un’altra fitta forte al cuore e una lacrima gli scese sul viso.

 

“Marco, con chi stai parlando, cosa hai nello zaino? Facci vedere” chiese la maestra avvicinandosi a lui.

Niente, non ho niente, è soltanto una…” In quel preciso momento dallo zaino, come per magia, uscì un fiocco di neve, volò per un po’ sopra le teste degli alunni e poi si incollò al vetro della finestra, luccicando come un bottoncino d’oro.

“E’ la mia piuma portafortuna” disse Marco. “Sono abituato a portarmela ovunque e a parlarle”.

“Che strano portafortuna, sembra un…” ma il suono della campanella salvò Marco dal fornire ulteriori spiegazioni.

 

Dopo la scuola, sulla strada di ritorno, Marco si mise disperatamente in cerca del suo nuovo amichetto. C’erano soltanto sporchi cumuli di neve, del piccolo barboncino neanche una traccia.

Arrivato a casa, andò direttamente in camera sua, si buttò sul letto e pianse come non aveva mai pianto in vita sua. Non si accorse dello scorrere del tempo e presto arrivò la sera. La finestra della sua camera dava sul lago e il lago in quel momento brillava riflettendo le stelle e la luna di un cielo sereno. Tutto di un tratto, l’ombra di una carrozza guidata da tanti strani animali e un nonnino paffuto attraversò la superficie del lago con la velocità di un razzo e in quel preciso istante al vetro della finestra dall’esterno si attaccò un fiocco di neve. Marco non vide niente di tutto questo perché era intento a scrivere una lettera.

 

“Caro Babbo Natale” scriveva Marco. “Dimenticati tutto della lettera che ti ho inviato pochi giorni fa. Vorrei il cane più brutto che ci sia, perché oggi ho capito che proprio nelle cose meno belle bisogna cercare il valore nascosto. E poi, volevo dirti, ti prometto che diventerò il più bravo della classe in matematica. Non ci si può sempre aspettare che le risposte arrivino da sole, come per magia. Guarda, mi sono già messo a studiare. Ti voglio bene. Tuo Marco”.

 

Il fiocco di neve si staccò dal vetro della finestra e si mise a volare, sempre più in alto…

 

Era Tobia 27. La sua missione terrestre era compiuta.

 

© Aleksandra Damnjanovic



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