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La storia del viandante, il cane e il cavallo

Fiaba pubblicata da: marco.ernst

C’era una volta, in un tempo lontano e in un luogo indefinito, un uomo di nome Giosafat.

Quest’uomo non aveva famiglia, non una compagna, non dei figli ed i suoi unici amici erano un cavallo di nome Diamante e un cane di none Luce, entrambi di sesso e razza indefiniti, ma erano i suoi amici, coloro che lui amava e che lo amavano: i soli.

L’uomo amava a tal punto i suoi amici che mai avrebbe osato cavalcare il cavallo (e tantomeno il cane).

Faceva con loro lunghe passeggiate, a volte sulla riva del mare, a volte sulla strada polverosa, altre ancora nella frescura del bosco.

Quando tutti e tre erano stanchi, oppure quando lo era anche solo uno di loro, si fermavano, il cavallo brucava l’erba e Giosafat e Luce si spartivano un poco di pane, di formaggio e di carne secca.

Mentre passeggiavano l’uomo pensava e meditava di e su tante cose: l’essenza della vita, la consistenza dell’universo, l’esistenza di Dio.

Non ci è dato sapere quali fossero i pensieri dei suoi due inseparabili amici.

Un giorno, mentre passeggiavano lungo un sentiero di campagna, grosse nubi nere si addensarono nel cielo e scoppiò un violento temporale, ma non era certo la pioggia, poca o tanta che fosse, a spaventare i componenti del trio, se non fosse che cominciarono tuoni e fulmini e loro, bagnati fradici, erano diventati degli ottimi conduttori elettrici e fu così che un fulmine li colpì e li uccise all’istante.

* * *

A volte succede che quando la morte ci coglie repentinamente, non ce ne rendiamo subito conto e così, magari, si continua a fare ciò che si stava facendo senza curarci del fatto che, di rigore, non lo si potrebbe fare.

Così Giosafat, assorto nei suoi pensieri filosofici, continuò a camminare, affiancato dai suoi amici animali ai quali poco caleva dell’essere vivi o morti: a loro bastava poco, vale a dire l’immensità della loro amicizia.

* * *

L’uomo, il cane e il cavallo si trovarono a camminare su una nuova strada a loro sconosciuta, in lenta ma inesorabile salita.

E cammina, cammina su quel falsopiano, all’uomo e verosimilmente anche ai suoi amici, venne un gran sete, ma nelle vicinanze non c’erano né torrenti, né laghi, né fontane.

Dopo altra strada, però, apparve loro un magnifico portone marmoreo che reggeva un cancello d’oro, oltre il quale si vedeva un sentiero lastricato di pietre preziose e, al termine di questo, una sontuosa fontana marmorea che zampillava acqua cristallina e freschissima.

Va detto che davanti al portone era seduto un uomo, di certo il guardiano, ed a lui si rivolse il viandante: “Salve buon uomo: che luogo è mai questo?”.

“Questo è il paradiso!” rispose il guardiano.

Giosafat rimase perplesso, rendendosi conto solo allora del suo nuovo stato di non – vivo, ma alla fine andava bene così, perché nulla per lui era cambiato.

“Ho tanta sete: potrei entrare a bere?” domandò Giosafat.

“Entra pure e bevi a volontà” rispose il custode del luogo.

“Anche i miei amici, però, hanno tanta sete” aggiunse l’uomo.

“Ah, no! Qui gli animali non sono ammessi” rispose il suo interlocutore.

“Allora no: se non possono entrare loro, non lo farò neppure io!” disse Giosafat contrariato e deluso e riprese il proprio cammino.

Procedettero ancora a lungo, con quella sete terribile, ma con la consapevolezza che, a quel punto, di sete non sarebbero morti di certo, visto che non erano più vivi.

Più avanti, difficile dire di quanta strada e di quanto tempo, laddove tempo e spazio non esistono, videro un altro ingrasso, stavolta protetto da un telaio di legno vecchio e consunto che reggeva, si fa per dire, un cancello un po’ male in arnese e arrugginito.

Al di là dell’ingresso si scorgeva un sentiero d’erba affiancato da alberi che curvava nascondendo alla vista il prosieguo dell’interno di quel luogo misterioso.

Anche a guardia di tale ingresso c’era un uomo semi – addormentato ed a lui si rivolse il viandante.

“Salve buon uomo – gli disse Giosafart – io e i miei due compagni abbiamo una gran sete”.

“Entrate pure tutti e tre: oltre la curva c’è una piccola sorgente, ma l’acqua è buona”.

Felice l’uomo entrò, face il breve percorso e giunto alla sorgente bevve e fece bere i suoi inseparabili compagni.

Finalmente dissetato si diresse di nuovo verso l’uscita; il guardiano era sempre lì.

“Grazie, ti siamo veramente grati della tua gentilezza, ma che luogo è mai questo?”

“Questo è il paradiso” rispose serafico l’altro.

“Ma come? Il paradiso? Ma anche l’altro guardiano, quello del portone col cancello d’oro, mi ha detto che il luogo che sorvegliava era il paradiso!”.

“Quello? – replicò sorridendo il guardiano – quello non è affatto il paradiso: è l’inferno!”.

Giosafat rimase colpito dal tentato inganno: “Ma tutto ciò è scorretto, non dovreste permettere che il maligno inganni in questo modo i passanti, spacciando per paradiso il suo luogo di pena”.

“E perché mai dovremmo protestare per il suo inganno? Il maligno è talmente stolto che non si rende conto che in questo modo ci fa un favore”.

“Un favore?” chiese perplesso Giosafat che, a questo punto, cominciava a non capirci più nulla.

“Certo, un favore – insistette il custode del paradiso – in questo modo là si fermano coloro che, per interesse personale ed egoismo, sono disposti a rinunciare ai loro amici, mentre da noi arrivano solo coloro disposti a sacrificare per questi il loro benessere e il loro tornaconto”.

Giosafat, Luce e Diamante avevano superato l’esame e furono accolti tutti e tre in paradiso, quello vero.

(Premetto che questa storia non è mia, me ne è arrivato un sunto via web: mia è invece l’elaborazione e il piacere di condividerla)



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