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Sindbad il marinaio: terzo viaggio // Audio fiaba

Fiaba pubblicata da: Nicoletta Bartolo

Eravi a Bagdad un povero facchino chiamato Sindbad. Un giorno mentre era occupato nei suoi tristi pensieri, vide uscire da un palazzo un servo che venne a prenderlo per un braccio, dicendogli:

— Seguitemi; il signor Sindbad, mio padrone, vuol parlarvi.

E lo condusse seco, introducendolo in una gran sala, ove erano molte persone intorno ad una tavola coperta d’ogni specie di vivande delicate. Vedevasi al posto d’onore un personaggio grave, ben fatto e venerabile per la sua lunga barba bianca, e dietro a lui erano in piedi molti ufficiali e famigliari intenti a servirlo.

Questo personaggio era Sindbad.

Tratto da “Le mille e una notte

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L’audiofiaba

Il testo originale

— Subito perdei nella dolcezza della nuova vita la memoria dei pericoli corsi ne’ miei due viaggi: siccome io era nel fior dell’età, mi annoiai di vivere in riposo, e scacciando dal mio pensiero l’idea dei nuovi pericoli che andava ad affrontare, partii da Bagdad con ricche mercanzie del paese, le quali feci trasportare a Bassora e colà m’imbarcai di bel nuovo con altri mercanti. Un giorno ch’eravamo in alto mare fummo travagliati da un’orribile tempesta, la quale ci spinse nel porto di un’Isola, in cui il capitano avrebbe desiderato di non entrare.

Quando furono ammainate le vele, il Capitano ci disse:

— Quest’isola e alcune altre vicine sono abitate da selvaggi, i quali verranno ad assalirci. Quantunque siano nani, la nostra mala fortuna vuole che non facciamo la menoma resistenza, perché essi son più numerosi delle cavallette, e se ci accadesse di ucciderne uno solo, si getterebbero tutti su di noi e ci accopperebbero.

— Il discorso del capitano pose tutto l’equipaggio in costernazione e conoscemmo ben presto aver egli detto la verità. Vedemmo comparire una moltitudine innumerevole di selvaggi schifosi, coperti per tutto il corpo di pelo rosso ed alti soltanto due piedi. Essi si gettarono a nuoto e circondarono in un batter d’occhio il vascello e ci fecero sbarcar tutti. Menarono poscia il naviglio in un’altra isola, di dove erano venuti.

Ci allontanammo dalla riva e avanzandoci nell’Isola, scoprimmo molto lungi da noi un alto edificio, per cui dirigemmo i nostri passi per quella volta.

Era un palazzo ben costrutto ed altissimo, avente una porta di ebano a due battenti che aprimmo.

Entrammo nel cortile, e vedemmo di fronte un vasto appartamento, con un vestibolo ov’era da un lato un monte di ossa umane e dall’altro una infinità di spiedi.

Il sole tramontava, e la porta dell’appartamento si aprì con molto rumore, e vedemmo uscir di là una brutta figura d’uomo nero alto quanto una grossa palma.

Aveva in mezzo alla fronte un sol occhio rosso ed ardente come un carbone acceso; i denti gli uscivano dalla bocca, larga quanto quella d’un cavallo, ed il labbro inferiore gli scendea sul petto; le sue orecchie erano simili a quelle d’un elefante; aveva le unghie adunche e lunghe come gli artigli degli uccelli più rapaci. Alla vista di un gigante sì spaventevole, perdemmo ogni sentimento e restammo come morti.

Finalmente ritornammo in noi, e lo vedemmo seduto sotto il vestibolo ad osservarci attentamente. Quando ci ebbe esaminati ben bene si avanzò verso di noi ed essendosi avvicinato, stese la mano su di me, mi prese per il collo, e mi volse da tutti i lati. Dopo avermi osservato ben bene, vedendo ch’io era sì magro, che non aveva che pelle e ossa, mi lasciò. Prese gli altri successivamente, e li esaminò allo stesso modo. Siccome il capitano era il più grasso dell’equipaggio, lo tenne con una mano com’io avrei tenuto un passero, e gli passò uno spiedo attraverso il corpo. Avendo acceso quindi un gran fuoco, lo fece arrostire e lo mangiò per cena.

Terminato quel pasto, tornò nel vestibolo, dove si coricò e si addormentò russando in modo più fragoroso del tuono.

La nostra condizione ci parve tanto orribile, che molti de’ miei compagni furono sul punto d’andare a gettarsi in mare, anziché aspettare una morte sì[118] crudele. Allora, uno della compagnia, prendendo la parola, disse:

— Ci è vietato darci da noi stessi la morte, e quantunque fosse permesso, non è forse più ragionevole il disfarci del nostro nemico?

Siccome a me era venuta in capo un’idea in proposito, la comunicai a’ miei compagni i quali la approvarono.

— Miei cari fratelli — loro dissi — voi sapete esservi molto legname lungo la riva del mare; formiamo molte zattere le quali possano portarci, e quando saranno terminate le lasceremo sulla costa finché ci parrà opportuno di servircene. Intanto noi eseguiremo il disegno propostovi per liberarci dal gigante; se riesce potremo aspettar qui qualche vascello che ci tragga da quest’isola fatale; se al contrario ci fallisce il colpo, raggiungeremo subito le nostre zattere e ci metteremo in salvo.

Piacque il mio avviso e costruimmo diverse barche atte a portare tre persone.

Tornammo al palazzo verso il finir del giorno: il Gigante giunse poco dopo di noi. Bisognò soffrire ancora di vedere arrostito un nostro camerata: ma ecco in qual modo ci vendicammo della crudeltà del gigante. Dopo ch’egli ebbe terminato la sua detestabile cena, si coricò supino e s’addormentò. Appena lo udimmo russare come era sua usanza, prendemmo ognuno uno spiedo, ne mettemmo la punta al fuoco per farlo arroventare, ed indi gliela conficcammo nell’occhio tutti ad un tempo.

Il dolore che intese il Gigante gli fece mettere uno spaventevole grido. Si alzò fieramente e stese le mani da tutti i lati onde afferrare qualcuno di noi e sacrificarlo alla sua rabbia. Dopo averci ricercati invano, trovò a tentoni la porta e uscì mandando urli spaventevoli.

Uscimmo dal palazzo dopo il gigante e andammo al lido del mare nel luogo ove erano le nostre zattere. Tosto le gettammo nell’acqua ed aspettammo il giorno. Ma appena fu giorno, scorgemmo il mostro crudele, accompagnato da due giganti presso a poco della sua grandezza, i quali lo conducevano, e da un gran numero di altri che lo precedevano a passi precipitati.

A quella vista non esitammo a gettarci sulle zattere e cominciammo ad allontanarci dalla riva a forza di remi. I giganti se ne accorsero, si munirono di grosse pietre, e cominciarono a gettarle così destramente, che ad eccezione della zattera su cui io era, tutte le altre furono fracassate, e gli uomini che vi erano sopra s’annegarono.

Io e i miei compagni, siccome vogavamo a tutta forza, ci trovammo più inoltrati nel mare e fuori del tiro delle pietre.

Quando fummo in alto mare restammo in balìa del vento e delle onde e passammo tutto quel giorno e la notte appresso in una crudele incertezza sul nostro destino: ma giunto l’indomani, fummo spinti ad un’isola dove ci fermammo gongolanti di gioia. Ivi trovammo delle eccellenti frutta, colle quali potemmo riparare le forze perdute. Poscia ci addormentammo sul lido del mare: ma fummo svegliati dal rumore di un serpente.

Egli, trovatosi vicino a noi, inghiottì uno dei nostri ad onta delle grida e degli sforzi ch’ei faceva per liberarsi dal rettile. Io e l’altro mio compagno prendemmo tosto la fuga.

Camminando, osservammo un albero altissimo sul quale ci proponemmo di passarvi le notti seguenti per metterci in sicurezza. Mangiammo delle frutta e al finir del giorno salimmo su l’albero. Udimmo allora il serpente il quale venne sibilando fino ai piedi dell’albero, si levò lungo il tronco e raggiungendo il mio camerata, l’inghiottì ad un tratto e si ritirò.

Restai fino a giorno sull’albero, discendendone più morto che vivo; infatti io non poteva aspettarmi altra sorte di quella de’ miei compagni. Stanco e scoraggiato mi allontanai dall’albero e corsi verso il mare col disegno di precipitarmi in esso a capofitto.

Dio fu tocco della mia disperazione; nel tempo in cui stavo per gittarmi in mare, vidi un naviglio assai lontano dalla riva. Gridai con tutte le mie forze per farmi sentire e spiegai la tela del mio turbante per farmi osservare. Ciò non fu inutile: tutto l’equipaggio mi scorse ed il capitano m’inviò una scialuppa.

Quando fui a bordo i mercanti e i marinai mi domandarono con molta premura per quale avventura mi fossi trovato in quell’isola deserta, e dopo ch’ebbi loro raccontato tutto quanto m’era succeduto, i più vecchi mi dissero aver molte volte udito parlare dei giganti i quali dimoravano in quell’isola, e che erano antropofagi: circa i serpenti, aggiunsero esservene ivi in gran abbondanza.

Entrammo in un porto e vi demmo fondo.

I mercanti cominciarono a fare sbarcare le loro mercanzie per venderle o cambiarle. In questo frattempo il capitano mi chiamò e mi disse:

— Fratello, ho in deposito alcune mercanzie che appartenevano ad un mercante, il quale ha navigato qualche tempo sul mio naviglio; siccome questo mercante è morto, io le metto a profitto per renderne conto a’ suoi eredi, quando ne incontrerò qualcuno. Ecco le mercanzie in discorso; spero vorrete incaricarvi di farne commercio, sotto la condizione del compenso dovuto alle vostre fatiche.

Acconsentii ringraziandolo, perché mi forniva occasione di non restare ozioso. Lo scrivano del bastimento registrava tutte le balle coi nomi dei mercanti a cui appartenevano.

Ora, siccome domandai al Capitano sotto qual nome dovessi registrar quelle delle quali m’incaricava.

— Scrivete — gli rispose il capitano — sotto il nome di Sindbad il Marinaio.

Io non potei sentirmi nominare senza emozione, e guardando fissamente il capitano lo riconobbi per quello che nel mio secondo viaggio mi aveva abbandonato nell’isola, ove mi era addormentato sulla riva d’un ruscello, sciogliendo la vela, senza attendermi o farmi cercare. Io non l’avea riconosciuto dapprima a causa del cangiamento avvenuto nella sua persona.

Non è meraviglia se egli, che mi credeva morto, non mi avesse riconosciuto; ond’io gli dissi:

— Capitano, è vero che il mercante a cui appartenevano queste balle si chiamava Sindbad?

— Sì — mi rispose — si chiamava in tal modo, egli era di Bagdad, e si era imbarcato sul mio vascello a Bassora. Un giorno che noi scendemmo in un’isola per fare acqua e rinfrescarci, non so per quale sbaglio io sciolsi la vela, senza badare ch’ei non si era imbarcato cogli altri. I mercanti ed io ce ne accorgemmo solo quattro ore dopo. Avevamo il vento in poppa, e sì gagliardo, da non poter virar di bordo per andarlo a riprendere.

— Voi dunque lo credete morto? — ripresi io.

— Certamente — ei rispose.

— Ebbene, capitano — ripigliai — aprite gli occhi e riconoscete in me quel Sindbad da voi lasciato nell’Isola deserta.

A queste parole il Capitano si pose a guardarmi fissamente. Dopo avermi molto attentamente considerato, mi riconobbe ed esclamò abbracciandomi:

— Sia lodato Iddio, son lieto che la fortuna abbia riparato il mio errore! Ecco le vostre mercanzie che ho sempre avuto cura di conservare e di mettere a profitto in tutti i porti ove ho approdato; ve le restituisco col profitto ricavatone.

Io le presi, manifestando al Capitano la mia riconoscenza e tornai a Bagdad con tante ricchezze che io ne ignorava la quantità.



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