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Sindbad il marinaio: settimo viaggio // Audio fiaba

Fiaba pubblicata da: Nicoletta Bartolo

Eravi a Bagdad un povero facchino chiamato Sindbad. Un giorno mentre era occupato nei suoi tristi pensieri, vide uscire da un palazzo un servo che venne a prenderlo per un braccio, dicendogli:

— Seguitemi; il signor Sindbad, mio padrone, vuol parlarvi.

E lo condusse seco, introducendolo in una gran sala, ove erano molte persone intorno ad una tavola coperta d’ogni specie di vivande delicate. Vedevasi al posto d’onore un personaggio grave, ben fatto e venerabile per la sua lunga barba bianca, e dietro a lui erano in piedi molti ufficiali e famigliari intenti a servirlo.

Questo personaggio era Sindbad.

Tratto da “Le mille e una notte

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L’audiofiaba

Il testo originale

– Al ritorno del mio sesto viaggio, abbandonai assolutamente l’idea di farne degli altri. Un giorno in cui dava un banchetto a numerosi miei amici, mi si venne ad avvertire che un ufficiale del Califfo chiedeva di me.

Mi alzai da tavola e gli andai incontro.

– Il Califfo – mi diss’egli – m’ha incaricato di venirvi a dire che vuole parlarvi. – Seguii al palagio l’ufficiale, ed il Principe, il quale io salutai prosternandomi a’ suoi piedi:

– Sindbad – mi disse – ho bisogno di voi; fa d’uopo che andiate a portare la mia risposta e i miei doni al Re di Serendib. È ben giusto ch’io contraccambi la gentilezza ricevutane.

Il comando del Califfo fu per me un colpo di fulmine. In pochi giorni mi preparai alla partenza, e tosto consegnatimi i doni del Califfo con una lettera di sua propria mano, partii e presi il cammino di Bassora, ove m’imbarcai.

La mia navigazione fu felicissima, e giunsi all’isola di Serendib. Colà esposi ai ministri la commissione di cui io era incaricato e li pregai di farmi dare udienza senza indugio: il che essi fecero.

Fui condotto con onoranza al palagio e quivi salutai il Re, prosternandomi secondo l’uso.

Quel Principe mi riconobbe a prima vista, e mi dimostrò una gioia tutta particolare nel rivedermi.

– Ah! Sindbad – mi disse – siate il benvenuto! Vi giuro aver io pensato a voi spessissimo dopo la vostra partenza. Benedico questo giorno, dappoiché ci vediamo un’altra volta.

Gli feci i miei complimenti, e dopo averlo ringraziato della sua bontà, gli presentai la lettera e il presente del Califfo, ch’ei ricevette con tutti i segni di una grande soddisfazione.

Il Re di Serendib ebbe un gran piacere, vedendo che il Califfo aveva corrisposto alla sua amicizia.

Poco tempo dopo questa udienza io procurai di avere quella del mio commiato, cui non penai ad ottenere.

L’ottenni alla perfine e il Re nel congedarmi mi fece un presente molto considerevole.

Mi rimbarcai tosto coll’intenzione di ritornare a Bagdad, ma non ebbi la fortuna di giungervi come io sperava.

Tre o quattro giorni dopo la mia partenza fummo assaliti dai corsari, i quali s’impadronirono del nostro vascello, non essendo in niun modo in istato di difenderci. Dopo che i corsari ci ebbero spogliati tutti e datoci de’ cattivi abiti in luogo dei nostri, ci condussero in una grand’isola molto lontana, ove ci vendettero. Io caddi tra le mani di un ricco mercante, il quale appena m’ebbe comprato mi condusse a casa sua, ove mi fece mangiare, bere e vestire pulitamente. Alcuni giorni dopo, mi domandò se io sapessi tirare l’arco.

Gli dissi esser questo uno degli esercizii della mia giovinezza e che non l’avea dappoi dimenticato.

Allora mi diede un arco e delle frecce, e avendomi fatto salire dietro a lui su di un elefante mi condusse in una foresta, lontana dalla città, e la di cui estensione era vastissima. Noi vi c’inoltrammo di molto e quando giudicò opportuno di fermarsi, mi fece scendere.

Indi, mostrandomi un grand’albero, mi disse:

– Salite su quell’albero, e tirate agli elefanti che vedrete passare, poiché avvene una prodigiosa quantità in questa foresta. Se alcuno ne cade, venite ad avvertirmene. Dopo avermi detto ciò, mi lasciò dei viveri; riprese il cammino della città, ed io restai sull’albero alla posta per tutta la notte. L’indomani, appena fu levato il sole, ne vidi comparire un gran numero. Trassi sopra essi parecchie frecce, e infine uno ne cadde per terra.

Gli altri si ritirarono tosto e mi lasciarono in libertà di andare ad avvisare il mio padrone della caccia che io aveva fatto. In ricompensa di questa nuova egli mi regalò un buon pranzo, lodò la mia destrezza e mi fece molte carezze. Quindi andammo insieme alla foresta a scavare una fossa, in cui sotterrammo l’elefante ucciso.

Il mio padrone si proponeva di ritornare quando l’animale sarebbe imputridito, e di portar via i denti per venderli.

Continuai per due mesi quella caccia, e non passava giorno in cui non uccidessi qualche elefante.

Un mattino, mentre aspettava l’arrivo degli elefanti, mi accorsi con estremo stupore che essi si diressero verso di me con orribile fracasso e in sì gran numero che la terra n’era coperta e tremava sotto i loro passi. Si avvicinarono all’albero ove io era asceso, e tutto lo accerchiarono colle proboscidi tese e gli occhi fissi su di me. A quello spettacolo sorprendente io rimasi immobile, e preso da tale spavento, che l’arco e le frecce mi caddero dalle mani. Dopo qualche momento un elefante più grosso abbracciò l’albero dalla parte inferiore colla sua proboscide e sradicatolo mi caricò sul suo dorso.

Ei si pose quindi alla testa di tutti gli altri i quali lo seguivano in truppa, e mi portò fino ad un sito, ove avendomi posto in terra, si ritirò con tutti quelli che l’accompagnavano.

Immaginate lo stato in cui era; credeva dormire anziché vegliare. Finalmente, dopo esser stato qualche tempo steso in quel luogo, non vedendo più alcun elefante, mi levai ed osservai: io ero su di una collina tutta coperta d’ossa e di denti d’elefanti.

Ammirai l’istinto di quegli animali e non dubitai punto che quello non fosse il loro cimitero, e che non mi avessero quivi condotto a bella posta per mostrarmelo, affinché cessassi dal perseguitarli, dappoiché io lo faceva pel solo motivo d’avere i loro denti. Non mi fermai punto sulla collina; volsi i miei passi verso la città e dopo aver camminato un giorno ed una notte, giunsi a casa del mio padrone.

Appena m’ebbe scòrto il mio padrone mi disse:

– Ah! povero Sindbad, io era in grande ansietà per sapere ciò che eri divenuto! Sono stato alla foresta, vi ho trovato un albero di fresco sradicato, un arco e delle frecce per terra, e dopo averti inutilmente cercato, disperava di mai più rivederti.

Soddisfeci la sua curiosità, e il giorno appresso, essendo andati tutti e due alla collina, riconobbe con estrema gioia la verità di ciò che gli avevo detto. Caricammo l’elefante, sul quale eravamo venuti, di quanti denti poteva portare, e quando fummo di ritorno:

– Fratello – mi disse – poiché non voglio più trattarvi da schiavo, dopo il piacere cagionatomi con una scoperta che dovrà arricchirmi, Dio vi colmi d’ogni sorta di beni e di prosperità. Io dichiaro innanzi a lui, che vi rendo libero fin da questo istante.

«Gli elefanti della nostra foresta ci fanno perire ogni anno un’infinità di schiavi da noi mandati a cercare l’avorio. Voi mi procurate un incredibile vantaggio: finora non abbiamo potuto aver l’avorio che coll’esporre la vita de’ nostri schiavi; ed ora ecco tutta la nostra città arricchita per mezzo vostro. Non crediate ch’io pretenda avervi ricompensato colla libertà da me or ora datavi; voglio aggiungere a questo dono dei beni considerevoli.

A questo discorso obbligante risposi:

– Padrone, Dio vi conservi! La libertà accordatami basta per isdebitarvi verso di me: e per unica ricompensa del servizio che ho avuto la fortuna di rendere a voi e alla vostra città, altro non vi domando se non il permesso di ritornare al mio paese.

– Ebbene – replicò egli – il mossone ci condurrà ben presto dei navigli i quali verranno a caricare avorio. Io allora vi rimanderò.

I navigli alla fine arrivarono, e il mio padrone, avendo egli stesso scelto quello sul quale io dovea imbarcarmi, lo caricò d’avorio metà per mio conto. Non si dimenticò di farvi mettere delle provvisioni in abbondanza pel mio viaggio, ed inoltre m’obbligò ad accettare dei regali di gran prezzo, fra le rarità del paese. Dopo averlo ringraziato quanto mi fu possibile di tutti i benefizi che da lui aveva ricevuti, m’imbarcai.

Ci fermammo in alcune isole per prendervi dei rinfreschi.

Trassi dalla vendita del mio avorio una grossa somma di danaro, comprai parecchie cose rare per farne dei regali, indi mi unii ad una grossa carovana di mercanti, e giunsi felicemente a Bagdad.

A questo modo Sindbad terminò il racconto del suo settimo ed ultimo viaggio, e volgendosi quindi ad Hindbad:

– Ebbene, amico mio – soggiunse – avete mai udito dire aver qualcuno sofferto al par di me? Non è forse giusto che dopo tanti travagli io goda d’una vita piacevole e tranquilla?

Appena ebbe profferite queste parole, Hindbad gli si accostò e baciandogli la mano disse:

– Signore, avete sopportato orribili pericoli, le mie pene non sono paragonabili alle vostre: se esse mi affliggono, me ne consolo col più piccolo profitto che ne traggo. Voi meritate non solo una vita tranquilla, ma siete degno ancora di tutti i beni immaginabili, poiché ne fate un sì buono uso e siete cotanto generoso.

Sindbad gli fece dare altri cento zecchini, lo ricevette nel numero de’ suoi amici, gli disse di abbandonare la sua professione di facchino e di continuare a venire a pranzo da lui tutti i giorni.



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